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lunedì 9 marzo 2015

Concludiamo la nostra indagine con Emanuela Zuccalà: #8marzoxché?

Abbiamo chiesto ai nostri autori e a voci importanti del giornalismo e dell’attivismo sociale cosa ne pensano della Festa della Donna ponendo loro due domande. Ogni giorno pubblichiamo le loro risposte, in modo da arrivare all’8 marzo più consapevoli. L’hashtag di riferimento per questa iniziativa sarà #8marzoxché.

Dulcis in fundo, parliamo di #8marzoxché con Emanuela Zuccalà, autrice del reportage Donne che vorresti conoscere.


L’8 marzo è la Giornata Internazionale della donna, ufficializzata dall’Onu nel 1977 come data simbolo per rendere omaggio alle lotte e ai sacrifici della donne che, dall’inizio del 1900, e ancora oggi, lottano per avere pari diritti e per opporsi strenuamente a discriminazioni e violenza. Ha ancora senso, nel 2015, festeggiare la festa della donna, oppure è un’arma a doppio taglio? Come si può evitare che le donne, soprattutto le ragazze giovani, identifichino l’8 marzo con la mimosa e non con il vero significato della festa?

Da giornalista, ho iniziato a scrivere di donne perché, nonostante detesti profondamente l’espressione “sesso debole”, globalmente corri­sponde ancora a verità. Nei Paesi del cosiddetto “primo mondo”, la de­bolezza femminile sta scritta, oltre che nei dati sulla violenza domestica, in un’anacronistica subalternità economica. In Europa le donne guada­gnano mediamente il 16,4 per cento in meno degli uomini; negli Stati Uniti il divario è del 13 per cento. L’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) di Vilnius, Lituania, ha elaborato un interessante al­goritmo, il Gender Equality Index, che nei ventotto Stati dell’Unione combina vari indicatori: la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, la differenza tra i loro stipendi medi e quelli maschili, il livello d’istruzione, la salute, la violenza subìta e infine il potere, valutato a seconda della presenza femminile in parlamenti, ministeri, associazioni di categoria, sindacati e board di grandi aziende. Se la parità assoluta equivale a cento e la totale disparità a zero, la media europea si ferma a un tiepido 54, che precipita a 38 nella sola area del potere, quella più interessante: un maggior potere alle donne equivarrebbe a più oppor­tunità e libertà di programmare politiche sociali ed economiche che tengano conto della conciliazione lavoro-famiglia, della prevenzione della violenza di genere e di tanti altri elementi utili alla vita quotidiana di ogni donna e, alla fine, al benessere e al progresso di ogni società.
L’Italia è indietro, e di molto: il nostro indice di parità è 40,9, che diventa un vergognoso 18,6 nella gestione dell’autorità economica e politica. In quest’area, peggio di noi in Europa fanno solo Cipro e Lussemburgo. La previsione dell’Eige è tuttavia ottimistica: tra cin­quant’anni l’Unione potrà vantare un Indice di uguaglianza di genere pari a 75, al quale già si avvicinano Svezia, Danimarca e Finlandia. Per approdare a cento, si vedrà. Nei Paesi in via di sviluppo ci sono zone in cui la discriminazione delle donne assume abnormi connotati di oppressione socialmente tol­lerata, fino a crimini conclamati. Negli anni Novanta, il premio Nobel indiano Amartya Sen scriveva che nel mondo mancavano all’appello cento milioni di donne: uccise da piccole perché indesiderate a causa del sesso, abortite alla prima ecografia oppure lasciate senza cure du­rante una malattia. Fenomeni noti in India e in Cina, soprattutto. In Africa, in ventotto Paesi su cinquantaquattro ancora si crede che la mutilazione genitale femminile sia un necessario rito di passaggio all’e­tà adulta, poiché privando le donne del piacere sessuale si producono mogli fedeli e ubbidienti. E ancora: l’agenzia dell’Onu su droga e cri­mine (Unodc) stima che, dei 2,4 milioni di esseri umani trafficati come merci da 127 Paesi del mondo, il 75 per cento siano donne e ragazze.
Le donne sono marginalizzate anche nell’accesso all’istruzione di base: a trentacinque milioni di ragazze in età scolare è precluso questo diritto, e non solo perché alcune di loro vivono in scenari di conflitto dove la quotidianità è per tutti stravolta. Nella maggior parte dei casi, restano a casa per volere della famiglia che preferisce mandarle a la­vorare e privilegiare l’istruzione dei figli maschi, oppure le fa sposare il prima possibile. Secondo l’Unicef, nei Paesi in via di sviluppo circa settanta milioni di giovani donne sono diventate mogli da minoren­ni, e ogni anno le gravidanze precoci uccidono settantamila adole­scenti il cui corpo è troppo acerbo per generare nuove vite.
Gli argomenti per appassionarsi alla condizione femminile nel mondo, dunque, non mancano, e parlare di diritti delle donne a cer­te latitudini equivale semplicemente a promuovere i diritti umani. Come scrivono i premi Pulitzer Nicholas Kristof e Sheryl WuDunn nel loro libro Half the Sky, «nell’Ottocento la sfida morale cruciale fu lo schiavismo; nel Novecento la battaglia contro il totalitarismo. Noi crediamo che nel nuovo secolo la sfida morale fondamentale sarà la lotta per l’uguaglianza fra i sessi in tutto il mondo».
(Emanuela Zuccalà, autrice di Donne che vorresti conoscere).