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giovedì 24 marzo 2016

“Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti” – il discorso di Tito contro i nazionalismi – 26 marzo 1967

Il 26 marzo del 1967 a Priština, in un acceso discorso, Tito interviene duramente contro il pericolo dei nazionalismi. Di conseguenza – ricorda Bruno Maran in Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti. Cronaca postuma di un’utopia assassinata e delle guerre fratricide molti intellettuali ade­renti alla Matica Hrvatska si dimettono o sono espulsi dalla Lega dei comu­nisti, tra essi il generale Franjo Tuđman.
Il tema del nazionalismo torna nuovamente nella storia della Jugoslavia il 31 marzo del 1981, quando si segnala una ripresa delle manifestazioni a Priština. Le dimostrazioni hanno un carattere decisamente nazionalista, con scritte inneggianti all’unità di tutti i territori albanesi, esponendo immagini del leader albanese Hoxha. Purga nel­la Lega dei comunisti del Kosovo con 2.000 arresti tra gli iscritti. La durezza vuole essere un monito anche per le “tendenze nazionaliste” di sloveni e croati.

C’era una volta la Jugoslavia: dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, passando per il Regno di Jugoslavia, alla tremenda guerra di liberazione dagli invasori nazi-fascisti. Nacque nel 1947 la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, guidata dal maresciallo Tito: uno Stato federale esistito fino al 1991, quando scoppia la guerra, che porta nell’Europa della fine del XX secolo i crimini contro l’umanità, lo stupro etnico, il genocidio, l’urbicidio, la fuga di milioni di profughi, per concludersi con una pace ingessata, cui è seguita una guerra… “umanitaria”. Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti. Cronaca postuma di un’utopia assassinata e delle guerre fratricide racconta la storia di quel Paese, anno per anno, giorno per giorno. Un lavoro certosino di ricerca per realizzare un libro fondamentale.

40 anni a Karadžić, condannato a L’Aja per genocidio e crimini contro l’umanità

La terza camera di giudizio del Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi) ha condannato oggi pomeriggio in primo grado l’ex presidente dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia (Rs), Radovan Karadžić, a quarant’anni di carcere in qualità di supremo comandante delle forze armate serbo-bosniache per genocidio (quello di Srebrenica), crimini contro l’umanità e violazione delle leggi sulla detenzione dei prigionieri di guerra.
“In qualità di presidente della Rs e comandante supremo del Vrs (le forze armate dell’entità serbo-bosniaca, N.d.r.), l’accusato era l’unica persona nella Rs con il potere d’intervenire per prevenire che i bosniaci musulmani di sesso maschile potessero essere uccisi”, ha detto il presidente della Corte, giudice Kwon, in riferimento ai fatti di Srebrenica.
Il condannato ha ora la possibilità di ricorrere in appello contro una condanna destinata a provocare parecchie polemiche: insufficiente (e destinata a essere ridimensionata forse in appello) per i più, di certo ingiusta per il mondo ultranazionalista ortodosso, serbo, greco e russo in testa.
Il processo di primo grado contro Karadžić – arrestato il 21 luglio 2008 a Belgrado – è cominciato il 26 ottobre 2009 e si è svolto nel corso di 498 udienze. Circa 11.500 le prove ammesse in aula, 586 i testimoni ascoltati, dei quali 337 chiamati a testimoniare dalla procura generale, 248 dalla difesa e uno dalla Corte stessa.

Quello contro Karadžić è il centoquarantanovesimo processo giunto a sentenza presso il Tpi dal maggio del 1993, quando il Tribunale fu fondato. A oggi, sono 161 i processati dalla Corte. Sono al momento in corso dodici procedimenti contro altri accusati, tra i quali Ratko Mladić.

L’Aja, attesa per la sentenza del processo Karadžić, prevista per oggi pomeriggio

Salvo sorprese dell’ultima ora, oggi pomeriggio i giudici del Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi) a L’Aja, in Olanda, dovrebbero emettere la sentenza di primo grado nel processo contro l’ex autoproclamato presidente dell’autoproclamata Repubblica serba di Bosnia (Rs), lo psichiatra e sedicente poeta Radovan Karadžić.
Diversi i capi d’accusa a carico di Karadžić, il più pesante dei quali è quello di genocidio.
Karadžić, classe 1945, è in custodia a L’Aja dall’estate del 2008 (fu arrestato a Belgrado, dove si nascondeva sotto falsa identità, nel luglio di quell’anno) e durante l’intera durata del processo a suo carico ha rifiutato un avvocato difensore, servendosi unicamente di un consigliere legale. Scelta fatta anche da un altro noto ultranazionalista in attesa (dal 2012) di sentenza a L’Aja, il politico estremista ed ex leader paramilitare Vojislav Šešelj, da diversi mesi uccel di bosco dopo essere stato rilasciato per cure dal Tpi per un presunto tumore alla prostata.
Dodici anni di latitanza, nove anni di reclusione a L’Aja, cinque anni di processo, quasi seicento testimoni, 10.701 morti nel genocidio di Srebrenica, circa 250.000 morti nella guerra bosniaco-erzegovese, almeno 50.000 stupri etnici, un milione e mezzo di profughi, due milioni di sfollati interni sono altre cifre che possono forse aiutare a comprendere meglio l’identità e la complicata personalità di colui che potrebbe subire la sesta condanna all’ergastolo (la prima per un politico, gli altri sono stati tutti militari) nella storia del Tpi de L’Aja, ma che potrebbe essere il primo politico europeo a subire una simile sorte dai tempi del Tribunale di Norimberga (come molti auspicano). Un ultimo numero: quaranta. Ovvero le volte in cui il procuratore generale de L’Aja Alan Tieger lo ha definito “bugiardo” nel corso della dura requisitoria finale, durata circa cinque ore.

Questo pomeriggio forse, finalmente, potrà essere scritta – anche se con grave e imperdonabile ritardo – una pagina storica nella vicenda torbida e spaventosa della guerra in Bosnia Erzegovina. In attesa del processo d’appello e di quello, ancor più importante, contro il carnefice di quella terra martoriata, l’ex generale Ratko Mladić.

mercoledì 23 marzo 2016

#EdenIlParadisoPuòUccidere

Infinito edizioni - novità in libreria
Eden. Il paradiso può uccidere
(€ 15,90 – pag. 272)
Di Luca Leone
Avventura, emozioni, paesaggi da sogno, la forza dell’essere umano
Una spedizione scientifica particolare lascia l’Italia alla volta dell’Asia. Si cercano dei reperti unici, il cui ritrovamento cambierebbe definitivamente le principali teorie conosciute della Paleontologia. Le lussureggianti foreste del Sabah, lo Stato orientale della Malesia dove è diretta la spedizione, rappresentano perfettamente l’Eden biblico. L’Eden del Sabah – in realtà – nasconde un segreto inconfessabile che lega la guerra, il dominio e l’etica. La permanenza in questo luogo incantato e terribile cambierà per sempre i protagonisti e i loro destini.

«Pensa a quei conflitti, a quelle dittature… o a quei nuovi governi che, pretendendo libertà e autodeterminazione, respingono la protezione dei nostri finanziatori e dei loro alleati. Che cosa ci hanno dimostrato e ci dimostrano, al di là di tutto? Che il binomio uomo-tecnologia non riesce, almeno non ancora, a venire a capo dell’incredibile capacità di resistenza, di adattamento, di trasformazione e di metamorfosi dell’essere umano. L’uomo è più forte di se stesso, insomma. E allora, laddove neppure la tecnologia può giungere, non rimane che risvegliare gli incubi del passato, i mostri ancestrali, gli istinti pre-umani, ciò che l’uomo non conosce e a cui, almeno sulla carta, non può né sa resistere. I finanziatori vogliono questo, e noi siamo quasi riusciti a darglielo…».

sabato 19 marzo 2016

Origine e storia del #NoRuz

L’arrivo della primavera segna l’inizia del nuovo anno in Iran e Afghanistan. In questi due Paesi vige infatti il calendario persiano, noto anche come calendario di Jalaali. Si tratta di un calendario solare che stabilisce gli anni bisestili non mediante una regola numerica, ma sulla base dell'osservazione dell'equinozio di primavera. L’inizio del nuovo anno non cade automaticamente ogni 21 marzo, ma varia di volta in volta. Il calendario persiano è senza dubbio più esatto dal punto di vista scientifico, con un margine di errore di un giorno ogni 141.000 anni. Il calendario gregoriano, in uso in Occidente, ha invece un giorno di errore ogni 3.226 anni. I persiani furono il primo popolo a preferire il ciclo solare al ciclo lunare. Nella cultura zoroastriana, predominante in Persia fino all’avvento dell’Islam, il sole ha infatti avuto un’importanza simbolica fondamentale. Quest’anno entriamo nel 1395, per l'esattezza alle 5.30 e 12 secondi di domani, 20 marzo.
Nell'XI secolo, sotto il regno del sultano selgiuchide Jalaal ad-Din Malik Shah Seljuki, una commissione di scienziati della quale faceva parte il grande poeta e matematico Omar Khayyam, elaborò un nuovo calendario sulla base di uno in uso secoli prima. Il nuovo calendario persiano viene tuttora chiamato calendario di Jalaali, in onore del sultano. Sostituito in seguito col calendario lunare islamico, il calendario persiano viene  reintrodotto in Persia nel 1922. L'Afghanistan lo adotta nel 1957, ma denominando in arabo i mesi.
L’anno inzia con la Festa grande, il No Ruz (nuovo giorno), che è celebrato da almeno tremila anni ed è in assoluto la festa più importante in Iran. Dopo la rivoluzione del 1979 il governo cercò di ridurne l’importanza, in quanto festa preislamica. Fu però una mossa controproducente. La leggenda vuole che lo stesso Khomeini ci ripensò perché le donne di casa non gli rivolsero la parola per due settimane. È una festa bellissima e colorata. Le scuole e gli uffici chiudono per due settimane. Si scambiano auguri (Ayd-e Noruz Mubarak!) e regali (soprattutto banconote fresche di bancomat). Una sorta di Natale celebrato in primavera, dove tutto deve essere nuovo, nel segno della rinascita della vita dopo l’inverno.
La tradizione vuole che le celebrazioni del No Ruz si aprano 12 giorni prima del capodanno con una pulizia a fondo della casa (Khane Tekani). La giornata prevede anche l’acquisto di fiori e la visita ad amici e parenti.
L’ultimo mercoledì dell’anno si celebra la festa del fuoco (Chaharshanbe Surì). Nelle strade si accendono piccoli falò da saltare dopo aver recitato la formula “Zardî-ye man az to, sorkhî-ye to az man”, ovvero il mio giallo (simbolo della debolezza) a te, il tuo rosso (la forza) a me. È un rito purificatore che simboleggia il passaggio dall’inverno alla primavera, con la sconfitta delle tenebre e la vittoria della luce. Si crede anche che in questa notte gli spiriti dei morti possano tornare a far visita ai loro cari.
Al momento dell’entrata nel nuovo anno tutte le famiglie si riuniscono intorno alla tavola (sofreh) apparecchiata con sette oggetti che cominciano tutti per s: sabzeh, un dolce di germogli di grano o lenticchie che rappresenta la rinascita; samanu, un budino di germogli di grano e mandorle cotte, che simboleggia la trasformazione; sib, una mela rossa, simbolo della salute; senjed, frutto secco dell'albero di loto, simbolo dell'amore; sir, l'aglio, simbolo della medicina; somaq, una polvere di bacche usata per condire la carne, che rappresenta l'aurora; serkeh, l'aceto, simbolo della pazienza. È inoltre abitudine mettere in tavola uova colorate (che rappresentano la fertilità), acqua di rose, uno specchio a centrotavola e un pesciolino rosso in una boccia di vetro.
Il No Ruz ha anche una maschera tradizionale, “Haji Pirooz”. Incarna Domuzi, il dio sumero del sacrificio che viene ucciso alla fine del vecchio anno per rinascere all’inizio del nuovo. Haji Pirooz veste un costume rosso (simile a quello di Babbo Natale) e ha la faccia truccata di nero. Per le strade di Teheran è possibile incontrare persone vestite da Haji Pirooz che ballano e suonano tamburi e trombette per augurare un nuovo anno felice.
Il tredicesimo giorno del nuovo anno è chiamato Sizdah Bedar. Alcuni lo chiamano “pasquetta persiana” perché è tradizione trascorrerlo all’aperto e in compagnia. Gli antichi persiani credevano infatti che le dodici costellazioni dello zodiaco controllino i dodici mesi dell’anno e che ognuna governi il mondo per mille anni. Il tredicesimo giorno rappresenta perciò l’era del caos, che verrà alla fine dei tempi. Per questo motivo, è opportuno trascorrere Sizdah Bedar fuori casa, per scongiurare i malefici generati dal numero tredici. Alla fine di questa “pasquetta persiana”, il sabzeh messo a tavolo per Capodanno, viene messo sotto l’acqua corrente per esorcizzare il malocchio. Oltre che in Iran, il No Ruz è attualmente celebrato anche in India, Afghanistan, Tagikistan, Uzbikistan, Azerbaijan, Kazakistan e Kirghizistan.





giovedì 17 marzo 2016

#liberazione #Grbavica 19/3/1996: "Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti"

Dopo un assedio durato quattro anni il 19 marzo del 1996 Grbavica, l’ultimo quartiere di Sarajevo a presenza serba, passa sotto la giurisdizione della Federazione croato-mus­sulmana. Un corteo di bosniaci vi entra con bandiere: Sarajevo è finalmente riunificata, l’assedio è rimosso per sempre - ricorda Bruno Maran nel libro Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti. Fuggono a decine di migliaia dai quartieri periferici che, in base agli accordi, devono passare sotto controllo musulmano. Rimangono i rancori, le nostalgie, i rimpianti. L’anarchia e la rabbia accendono gli ultimi fuochi: i serbo-bosniaci e gli ultimi paramilitari četnici abbandonando il quartiere bruciando e minando molte abitazioni. Mentre Grbavica brucia, i bersaglieri arrestano alcuni giovani incendiari. Alcune donne anziane, prigioniere delle fiamme, sono salvate dai soldati italiani. Un giornalista locale è rapito e poi liberato dai bersaglieri. A Ilidža, bande armate terrorizzano il sobborgo, depredando i pochi abitanti che hanno deciso di rimanere, edifici sono dati alle fiamme.
Una donna serba si fa esplodere una bomba a mano in seno. Una donna bosniaca con la sua bambina sono vittime dell’esplosione di una mina men­tre visitano la loro casa, abbandonata all’inizio dell’assedio. Sempre a Ilidža, poliziotti bosniaci sono assaliti da giovani serbi. Gli episodi di violenza si moltiplicano, bande di bosniaci in cerca di vendetta e di bottino terrorizza­no i serbi rimasti, derubandoli. La “pulizia etnica” è completata, la separa­zione è irreversibile, l’apartheid è l’unico antidoto a nuovi conflitti. Sarajevo è riunificata, ma sfuma la possibilità di ricostruire la Sarajevo multietnica vissuta fino al ‘92. Se vi sono ancora dubbi sui risultati della pace di Dayton, questo deserto attorno a Sarajevo li scioglie tutti.
A Goradže si completa il trasferimento degli abitanti serbo-bosniaci: la città passa sotto la giurisdizione croato-musulmana. Alla mezzanotte si con­cludono anche le operazioni di smilitarizzazione della “zona di separazione”, una fascia larga quattro chilometri sorvegliata dall’Ifor, che corre per 1.030 chilometri, dividendo la FBiH dalla Rs.

C’era una volta la Jugoslavia: dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, passando per il Regno di Jugoslavia, alla tremenda guerra di liberazione dagli invasori nazi-fascisti. Nacque nel 1947 la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, guidata dal maresciallo Tito: uno Stato federale esistito fino al 1991, quando scoppia la guerra, che porta nell’Europa della fine del XX secolo i crimini contro l’umanità, lo stupro etnico, il genocidio, l’urbicidio, la fuga di milioni di profughi, per concludersi con una pace ingessata, cui è seguita una guerra… “umanitaria”. Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti. Cronaca postuma di un’utopia assassinata e delle guerre fratricide racconta la storia di quel Paese, anno per anno, giorno per giorno. Un lavoro certosino di ricerca per realizzare un libro fondamentale.

#diritti #umani #AIR16 Europa e Asia centrale

Il 2015 – si legge nel “Rapporto 2015-2016. La situazione dei Diritti Umani nel mondo” diffuso da Amnesty International – è stato un anno turbolento per la regione Europa e Asia Centrale e negativo per i diritti umani. È iniziato con feroci combattimenti nell’Ucraina orientale e si è concluso con pesanti scontri nella Turchia orientale. Nell’Eu, l’anno si è aperto e chiuso con attentati armati in Francia, a Parigi e dintorni, ed è stato completamente dominato dalla situazione critica di milioni di persone, la maggior parte in fuga da conflitti, che sono arrivate sulle coste europee. In questo contesto, il rispetto dei diritti umani è peggiorato in tutta la regione. In Turchia e in tutta l’area dell’ex Unione Sovietica, i leader politici hanno sempre più abbandonato il rispetto dei diritti umani, rafforzando il controllo sui mezzi d’informazione e prendendo ulteriormente di mira persone critiche e oppositori. Nell’Eu, la tendenza regressiva ha assunto una forma diversa. Alimentati dalla persistente incertezza economica, dal disincanto verso le politiche della classe dirigente e da un crescente astio contro le istituzioni dell’Eu e contro gli immigrati, i partiti populisti hanno ottenuto importanti risultati elettorali. In assenza di una leadership di buoni princìpi, il ruolo dei diritti umani come pietra angolare delle democrazie europee è sembrato più che mai vacillare. Ampie misure antiterrorismo e proposte per limitare l’afflusso di migranti e rifugiati sono state tipicamente annunciate con tutte le consuete cautele per la protezione dei diritti umani ma sempre più svuotate di contenuto.
Nel Regno Unito, il Partito conservatore al governo ha presentato proposte per abrogare la legge sui diritti umani; in Russia, alla Corte costituzionale è stato dato il potere di annullare le decisioni della Corte europea dei diritti umani; in Polonia, pochi mesi dopo la sua elezione, il partito di governo Legge e giustizia ha fatto approvare misure che limitavano la supervisione della Corte costituzionale. Con una crescente diminuzione del loro peso politico sulla scena internazionale, gli stati membri dell’Eu hanno chiuso un occhio su violazioni dei diritti umani che una volta avrebbero fortemente condannato, mentre cercavano di concludere accordi economici e ottenere il sostegno di paesi terzi, nei loro sforzi per combattere il terrorismo e tenere a distanza rifugiati e migranti.

Il Rapporto 2015-2016 rende merito a tutte le persone che si sono attivate in difesa dei diritti umani in tutto il mondo, spesso in circostanze difficili e pericolose.
Il testo contiene le principali preoccupazioni e le richieste di Amnesty International ed è una lettura fondamentale per chi elabora strategie politiche, per gli attivisti e per chiunque sia interessato ai diritti umani.

“L’anno da poco concluso ha messo a durissima prova la capacità dell’intero sistema internazionale di risposta alle crisi e agli sfollamenti di massa di persone, che si è rivelato tristemente inadeguato. Era dalla seconda guerra mondiale che i flussi di sfollati e di persone in cerca di rifugio non raggiungevano le dimensioni globali attuali. Questa situazione è stata in parte alimentata dal perdurare del conflitto armato in Siria, con ormai più della metà della popolazione in fuga, oltre i confini nazionali o sfollata internamente al paese. Finora i tentativi di trovare una soluzione al conflitto non sono serviti a nient’altro che a mettere in luce divisioni globali e regionali”. (Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International)

“Il Partigiano di Piazza dei Martiri” – la vera storia di Salvatore “Ciro” Cacciatore, il siciliano che morì insieme ai suoi compagni a Belluno

Il 17 marzo 1945 – settantuno anni fa – ai lampioni del Campedèl, la piazza principale di Belluno venivano impiccati quattro partigiani. Il loro capo era il siciliano ventiquattrenne Salvatore Cacciatore, nome di battaglia “Ciro”, che affrontò la morte con una dignità e un coraggio fuori del comune. I nazisti avevano consegnato al più giovane dei quattro una corda alla quale egli avrebbe dovuto fare un nodo scorsoio che avrebbe poi infilato al collo del suo capo. I due furono fatti salire su due scale che erano state appoggiate a un lampione e il ragazzo si mise all’opera. Fece vari infruttuosi tentativi: era terrorizzato e le mani gli tremavano in continuazione. Guardò il capo come per chiedere aiuto. “Ciro” gli disse qualcosa e lo incoraggiò con lo sguardo mentre egli faceva l’ennesimo tentativo. Quando finalmente il cappio fu pronto, fu lo stesso condannato a porgere la testa. 
Dopo la Liberazione, il luogo cambierà nome e si chiamerà Piazza dei Martiri.

Lo storico Enzo Barnabà ripercorre, nel romanzo storico Il Partigiano di Piazza dei Martiri. Storia del siciliano che combattè i nazisti e finì appeso a un lampione la vicenda di “Ciro”, colmando così un grande vuoto lasciato dalla burocrazia.

mercoledì 9 marzo 2016

“Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti” – accadde oggi: le prime manifestazioni autonomiste in Kosovo – 11 marzo 1981

L’11 marzo del 1981 in Kosovo violente manifestazioni assumono carattere di vera e propria rivolta popolare. Le manifestazioni ricordate da Bruno Maran nel libro Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti – prendono alla sprovvista il governo centrale di Belgrado, che tenta di minimizzare, specie con la stampa estera, poi passa al contrattacco, gridando alla “controrivoluzione fomentata da nemici interni e esterni”. Scatta la repressione con morti, feriti e decine di arresti. I dati ufficiali parlano di nove morti tra i dimostranti e un poliziotto, 75 feriti e 55 arrestati, mentre gli albanesi del Kosovo dichiarano 160 morti e 250 fe­riti. Nei processi sono comminate pesanti condanne ai capi del movimento di protesta. Viene abolita la Difesa territoriale del Kosovo.

C’era una volta la Jugoslavia: dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, passando per il Regno di Jugoslavia, alla tremenda guerra di liberazione dagli invasori nazi-fascisti. Nacque nel 1947 la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, guidata dal maresciallo Tito: uno Stato federale esistito fino al 1991, quando scoppia la guerra, che porta nell’Europa della fine del XX secolo i crimini contro l’umanità, lo stupro etnico, il genocidio, l’urbicidio, la fuga di milioni di profughi, per concludersi con una pace ingessata, cui è seguita una guerra… “umanitaria”. Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti. Cronaca postuma di un’utopia assassinata e delle guerre fratricide racconta la storia di quel Paese, anno per anno, giorno per giorno. Un lavoro certosino di ricerca per realizzare un libro fondamentale.

giovedì 3 marzo 2016

#iragazzidibrema #DarioRicci #Nazionalenuoto #MassimilianoRosolino

È il 28 gennaio 1966 nelle case degli italiani risuonano le note delle canzoni del festival di Sanremo. “Un aereo delle linee interne della Lufthansa è precipi­tato nei pressi dell’aeroporto di Brema, in Germania…”: il tono stentoreo del conduttore del telegiornale della sera spazza via il clima di gioiosa confusione che le canzonette sanremesi si portano dietro.
Sette atleti della Nazionale azzurra di nuoto, il loro allenatore e il giornalista della Rai Nico Sapio, muoiono in un incidente aereo in fase di atterraggio al termine del viaggio che li avrebbe dovuti portare da Milano a Brema per gareggiare in un importante meeting internazionale. A mezzo secolo dalla tragedia, Dario Ricci ripercorre in I ragazzi di Brema. 28 gennaio 1966, il tragico viaggio della Nazionale italiana di nuoto le ultime ore di quei campioni, le loro vite, le loro carriere. Pagine che rendono ancora oggi indimenticabile il ricordo de “i ragazzi di Brema”.
Ricordiamo i giovani atleti, il loro allenatore e il cronista Rai con le parole del giornalista Aronne Anghileri.
“Li accompagnammo al terminal venerdì mattina, la mattina del loro ultimo giorno; trascorremmo con loro quasi due ore. – ricorda Anghileri – Gli aerei non partivano, il volo di Londra fu annullato, poi quello di Francoforte: l’attesa si prolungava, si chiacchierò a lungo, si scherzò con tutti. Non con Paolo Costoli, che era accigliato e sentiva la respon­sabilità di guidare il gruppetto in un viaggio che si prean­nunciava per lo meno complicato e seccante e fu poi tragico, terribilmente tragico; non con Costoli, ma con tutti gli atleti, con il collega Nico Sapio sempre disteso e senza problemi. Ora non riusciamo a cancellare quest’ultimo incontro dalla memoria. […] Bruno Bianchi, il capitano. […] Sergio De Gregorio, il più bravo. […] Con Bianchi e De Gregorio è scomparsa metà della staffetta 4x200 stile libero, quella finalista a Tokyo ed era la metà migliore. […] Con ­Chiaffredo Rora, detto più familiarmente e più modestamente Dino, è scomparso l’atleta più illustre. ­ Amedeo Chimisso, l’ultima scoperta. Era venuto al grande nuoto da poco, dopo aver vinto tutte le enormi difficoltà che gli si erano parate davanti. ­[…] Carmen Longo, spirito caustico e studentessa dalla volontà riprovevole, affettuosissima e adorata figlia di famiglia numerosa, apprezzatissima dai bambini che sapeva trat­tare con tatto particolare. ­[…] Luciana dall’aria a volte assente e poi dalle osservazioni ficcanti e centrate, con il mezzo sorriso di furberia disarmante. ­[…] Daniela Samuele, che abbiamo visto partire lieta come non mai, per il primo grosso meeting della sua carriera. Paolo Costoli, il campionissimo d’anteguerra, l’uomo dalla vita avventurosa in America del Sud, approdato infine (‘la nostalgia mi prende qui’ diceva battendosi un pugno sul petto) a compiti di allenatore in Italia, a Firenze e a Roma. ­[…] E Nico Sapio, collega e amico che abbiamo avuto al fianco in tutto il mondo, sempre sereno, imperturbabile, sicuro di sé. Abbiamo scherzato con lui fino all’ultimo. […] Non possiamo ripensare a tutto questo e non rivolgere il nostro pensiero alle famiglie, alla Roma, al Fiat, alla Patavium, all’Olona, alla R.N. Bologna, alla Federazione Nuoto su cui è piombata una sventura tanto cru­dele e immeritata, agli atleti, tutti compagni e amici degli scomparsi, e assicurarli che il loro lutto è il nostro lutto, il loro pianto è il nostro pianto”.­
Dario Ricci presenta il libro nelle seguenti iniziative:

- venerdì 4 marzo, ROVERETO (TN), via Fratelli Fontana 14/c, ore 18,30;
- sabato 5 marzo, MARANELLO (MO), presso l'Auditorium Ferrari, ore 17,00. Dialoga con l'autore Fabrizio Sfondrini;
- sabato 12 marzo, ROMA, presso la libreria Arcadia, via Senofane 143, ore 18,30. Dialoga con l'autore Gerardo de Vivo. Partecipa Massimiliano Rosolino.

mercoledì 2 marzo 2016

Accadde oggi: 5/3/1946 Churchill pronuncia il discorso sulla #cortinadiferro

Era il 5 marzo di settant’anni fa quando – ricorda Bruno Maran in Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti – lo statista britannico Winston Churchill pronunciò il famoso discorso sulla “cortina di ferro” al Westminster College di Fulton, nel Missouri: Diamo il benvenuto alla Russia nel suo giusto posto tra le più grandi Nazioni del mondo. Siamo lieti di vederne la bandiera sui mari. Soprattutto, siamo lieti che abbiano luogo frequenti e sempre più intensi contatti tra il popolo russo e i nostri popoli. È tuttavia mio dovere prospettarvi determinate realtà dell'attuale situazione in Europa. Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi Stati dell’Europa centrale e orientale. Varsavia, Berlino, Praga, Vienna, Budapest, Belgrado, Bucarest e Sofia; tutte queste famose città e le popolazioni attorno a esse giacciono in quella che devo chiamare sfera sovietica, e sono tutte soggette, in un modo o nell’altro, non solo all’influenza sovietica, ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo da parte di Mosca”.
Con queste parole si apriva la fase post bellica della guerra fredda, con la netta divisione geopolitica in blocchi e sfere di influenza che terminerà solo nel 1989.
L’atteggiamento della Jugoslavia verrà espresso – continua Maran – il 1° marzo del 1948 attraverso le critiche del Comitato centrale del Partito comunista jugoslavo nei confronti dell’influenza dell’Urss nella politica dei Paesi a guida comunista, rivendicando uguaglianza dei diritti dei singoli partiti comunisti.

C’era una volta la Jugoslavia: dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, passando per il Regno di Jugoslavia, alla tremenda guerra di liberazione dagli invasori nazi-fascisti. Nacque nel 1947 la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, guidata dal maresciallo Tito: uno Stato federale esistito fino al 1991, quando scoppia la guerra, che porta nell’Europa della fine del XX secolo i crimini contro l’umanità, lo stupro etnico, il genocidio, l’urbicidio, la fuga di milioni di profughi, per concludersi con una pace ingessata, cui è seguita una guerra… “umanitaria”. Dalla Jugoslavia alle Repubbliche indipendenti. Cronaca postuma di un’utopia assassinata e delle guerre fratricide racconta la storia di quel Paese, anno per anno, giorno per giorno. Un lavoro certosino di ricerca per realizzare un libro fondamentale.

martedì 1 marzo 2016

Siria, il simbolo del fallimento del rispetto del diritto internazionale - Rapporto 2015-2016 Amnesty International

Il fatto che stiamo ormai assistendo allo scoppiare di così tante nuove crisi senza che nessuna delle precedenti venga mai risolta è la chiara dimostra­zione della mancanza di capacità e di volontà politica di porre fine ai conflitti, per non parlare di prevenirli. Il risultato è un’allarmante proliferazione di eventi non pronosticabili e di impunità.” Con queste parole, di António Guterres, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, dà inizio al Rapporto 2015-2016. La situazione dei Diritti Umani del mondo diffuso da Amnesty International e pubblicato in Italia dalla casa editrice Infinito edizioni. Il Rapporto si apre con le parole di Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International, che evidenzia le crisi del diritto internazionale e che riportiamo in estratto nelle righe che seguono.
“L’anno da poco concluso ha messo a durissima prova la capacità dell’intero siste­ma internazionale di risposta alle crisi e agli sfollamenti di massa di persone, che si è rivelato tristemente inadeguato. Era dalla seconda guerra mondiale che i flussi di sfollati e di persone in cerca di rifugio non raggiungevano le dimensioni globali at­tuali. Questa situazione è stata in parte alimentata dal perdurare del conflitto armato in Siria, con ormai più della metà della popolazione in fuga, oltre i confini nazionali o sfollata internamente al paese. Finora i tentativi di trovare una soluzione al conflitto non sono serviti a nient’altro che a mettere in luce divisioni globali e regionali.
Negli ultimi mesi, la reale gravità della crisi ha spinto le iniziative multilaterali di risposta all’ormai ininterrotto flusso di rifugiati, compreso il Piano regionale delle Nazioni Unite per i rifugiati e la resilienza, verso un maggiore coordinamento tra Egitto, Iraq, Giordania, Libano e Turchia. I governi europei, il Canada e gli Usa, dove la percezione dell’opinione pubblica della problematica dei rifugiati è stata scossa dalla struggente immagine diffusa dai mezzi d’informazione del corpo an­negato del piccolo siriano Aylan Kurdi, sono stati costretti a reagire all’indignazio­ne generale e alle richieste di accogliere i rifugiati e di porre fine alla crisi.
Sia nei paesi dell’area vicini alla Siria sia negli stati occidentali sono emerse profonde divergenze d’approccio nelle risposte alle crisi e ai conflitti. Se da un lato moltissimi rifugiati siriani hanno trovato ospitalità in alcuni dei paesi della regione, molti governi fuori e dentro la regione del Medio Oriente e Africa del Nord hanno continuato a mostrarsi riluttanti ad aumentare l’ammissione di rifugiati oltre una certa soglia. La condivisione degli sforzi e delle responsabilità ha continuato a es­sere terribilmente sbilanciata e le risorse fornite non riuscivano a far fronte a una crisi in rapida evoluzione. Nel frattempo, i diritti umani di molte famiglie e singole persone in movimento venivano violati, anche mediante la criminalizzazione dei richiedenti asilo, provvedimenti di refoulement, respingimenti e trasferimenti ver­so altri territori, oltre a varie iniziative degli stati che si sono configurate come una vera e propria negazione dell’accesso alle procedure di richiesta d’asilo.

Mentre il mondo si sforzava di dare una risposta all’enorme flusso di persone in fuga dalla Siria, la guerra che imperversava all’interno del paese ha concretizzato le pressanti preoccupazioni riguardo all’applicazione delle norme internazionali sui di­ritti umani e del diritto internazionale umanitario, che da anni erano state sollevate, tra gli altri, da Amnesty International. Il conflitto siriano è ormai diventato il simbolo dell’inadeguata protezione dei civili a rischio e, in senso più ampio, del sistematico fallimento da parte delle istituzioni nel far rispettare il diritto internazionale”.