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mercoledì 17 agosto 2016

#Aigues-Mortes, quante e quali vittime, di Enzo Barnabà

Ogni tanto, un giornale, una rivista o un sito internet decidono di occuparsi del massacro avvenuto ad Aigues-Mortes il 17 agosto 1893; approssimazioni e imprecisioni vengono non di rado diffuse presso il grande pubblico come verità. I fatti, com’è noto, si svolsero nelle saline della città dove i circa 500 italiani (400 stagionali provenienti soprattutto dal Piemonte e dalla Toscana e 100 già immigrati in Francia) ivi convenuti per la breve stagione della raccolta del cosiddetto oro bianco furono aggrediti con inaudita violenza.
Viene immancabilmente affermato che gli autoctoni erano esasperati perché la Compagnia delle Saline preferiva assumere gli italiani i quali offrivano le loro braccia a un prezzo più basso. Un’affermazione di apparente buon senso, ma falsa perché agli immigrati veniva rimproverato esattamente l’opposto: si lavorava a cottimo – “la peggiore forma di concorrenza tra lavoratori” aveva dichiarato appena una settimana prima il Congresso dell’Internazionale Socialista tenutosi a Zurigo – e gli italiani si distinguevano per l’energia dispiegata: erano venuti a fare la stagione per riportare a casa il gruzzolo più consistente possibile. La Compagnia, inoltre, non assumeva nessuno, non conosceva neppure il nome degli operai; trattava con i caporali – francesi o italiani che fossero – i quali le rivendevano con lucro il lavoro altrui.
Il numero dei morti viene talvolta definito “incerto”, talaltra viene fatto variare “tra i 15 e i 120”, spesso si riporta come attendibile la cifra di 50 vittime avanzata dall’“autorevole Times di Londra”. In alcuni casi, a queste vittime italiane, vengono aggiunti 4 morti da parte francese. In questo generale annaspamento, un posto di rilievo merita l’Enciclopedia Treccani che, nell’edizione del 1929, così scrive: “Il 19 agosto 1893, in un periodo di tensione franco-italiana, circa 400 operai italiani, che lavoravano in A., furono gettati nel Rodano dalla folla imbestialita”. Affermazione surreale visto che il Rodano non passa da Aigues-Mortes. La data del 19 agosto ci fa supporre che si tratti piuttosto di quella del giornale consultato dal compilatore della voce. E qui sta il punto.
Durante i giorni successivi all’eccidio, le prime pagine dei quotidiani italiani riportano con grande evidenza le notizie provenienti da Parigi. Ma cosa se ne sa a Parigi di ciò che è avvenuto a 800 chilometri di distanza? Nessun giornalista residente nella capitale pensa bene di recarsi in loco. Pervengono dispacci dal capoluogo del dipartimento, Nîmes dove il sentito dire e le manipolazioni prefettizie regnano sovrane con i quali si confezionano gli articoli che vengono spediti alle redazioni della Penisola. Nella selezione dei vari dati di cui si viene a conoscenza, risulta essere determinante l’orientamento politico del giornale: conciliante l’atteggiamento degli organi filogovernativi Giolitti aveva iniziato una marcia di riavvicinamento verso la Francia che l’eccidio ostacolava –, catastrofista invece quello dei fogli triplicisti legati all’opposizione crispina.
Queste fonti giornalistiche alimentarono per decenni gli scritti che in Italia fecero riferimento all’eccidio: manuali scolastici, storie generali, enciclopedie, e quant’altro. In Francia, invece, l’avvenimento venne totalmente occultato: neanche i libri sulla storia della città di Aigues-Mortes ne facevano menzione. Solo negli anni Settanta del secolo scorso un gruppo di ricercatori, i cui nomi sono Pierre Milza per la Francia, Nunziata Lo Presti, Lucio D’Angelo, Teodosio Vertone e il sottoscritto per l’Italia, pensò bene di andare a frugare tra le carte degli archivi e nei loro articoli la verità cominciò a farsi strada. Nel 1993, in occasione del centesimo anniversario, chi scrive pubblicò in Italia e in Francia il primo libro dedicato all’argomento1 articolando la ricostruzione in tre momenti: contesto, fatti e conseguenze. Nel 2010, giunse il libro di Gerard Noiriel che con padronanza inquadra l’avvenimento all’interno delle tensioni della Terza Repubblica e formula interessanti ipotesi di ascendenza sociostorica, ma che non si scosta da un’ottica francocentrica, ignorando sostanzialmente la produzione storiografica e gli archivi in italiano.
Malgrado le certezze acquisite dalla storiografia, le principali, se non le sole, fonti di molte delle successive citazioni e ricostruzioni continuarono ad essere gli articoli pubblicati a caldo dalla stampa dell’epoca ai quali abbiamo fatto cenno. Metto da parte la frottola allucinante dei due bambini italiani impalati e portati come trofeo per le strade della città e passo a quanto ebbe a scrivere un noto giornalista di Repubblica nel 2009. Una “guerra tra poveri” contro la manodopera italiana dichiarata in Inghilterra dai locali al grido di British jobs for British workers gli fece venire in mente Aigues-Mortes dove scrisse dopo aver consultato la raccolta di un vecchio quotidiano alcune decine di operai italiani vennero uccisi, scuoiati e messi sotto sale. La fonte mescolava (per superficialità o per malafede?) l’eccidio che era appena avvenuto con un episodio che aveva avuto luogo nella stessa cittadina qualche secolo prima, nel 1421, quando ai cadaveri dei soldati borgognoni trucidati dai nemici venne fatto subire quel sanitario così si pensava trattamento. Talvolta non si tratta tanto di mancata verifica delle fonti quanto di pregiudizio ideologico, magari inconscio: in occasione del 120° anniversario, nell’agosto 2013, il Secolo XIX ospitò un articolo di un autorevole storico dell’Università di Genova secondo il quale la xenofobia anti-italiana era dovuta alla presenza di operai provenienti dall’Italia meridionale. No, caro professore, il razzismo non guarda in faccia a nessuno: neanche un immigrato nelle saline era nato a sud della provincia di Pisa.
La consultazione degli archivi di Aigues-Mortes, di Angoulême (dove si svolse il processo), del MAE di Roma e dei comuni dai quali provenivano le vittime ci permette di conoscerne il numero e l’identità. Il massacro si consumò verso il mezzogiorno di quella lugubre giornata. La mattina, gli operai italiani, in gran parte piemontesi, che lavoravano nella salina della Fangouse, a otto chilometri dalla città, vedono arrivare circa cinquecento malintenzionati armati di randelli e di forconi. Alcuni scappano, altri si rifugiano, su consiglio dei pochi gendarmi accorsi sul posto, nella baracca che costituisce il loro misero alloggio. La costruzione viene presto assediata e presa d’assalto; qualcuno riesce a salire sul tetto, lo sfonda e prende a lapidare i malcapitati. Si teme il peggio. Al capitano Cabley che comanda i gendarmi perviene la notizia che, su indicazione del prefetto, gli italiani sono stati tutti licenziati e che vanno portati alla stazione perché tornino al loro paese.
Inizia dunque la marcia verso la stazione: un’ottantina di italiani protetti da venticinque gendarmi a cavallo e seguiti da una folla delirante che, appena si crea un varco, non esita a colpire selvaggiamente con randelli e forconi. Molti, quando possono, fuggono tra i vigneti che costeggiano il sentiero in cerca di salvezza; vengono sistematicamente rincorsi e, se acciuffati, colpiti senza pietà. Tra i fuggiaschi, Secondo Torchio, un giovane di Tigliole (Asti). Carlo Bonello, un altro tigliolese che si trovava assieme a lui, dichiarerà che Secondo che non mangiava da due giorni perché non aveva ancora potuto essere assunto dopo essere scappato, era stato inseguito e raggiunto da una “turba inferocita”. Lo aveva visto allargare le braccia e cadere a terra in mezzo alla campagna. Tra gli altri fuggitivi, Giovanni Giordano (il “portavoce degli italiani”), ventiquattrenne di Palanfrè (frazione di Vernante), che viene raggiunto da quattro individui che lo buttano a terra e lo picchiano senza tregua. Prima che muoia, uno dei francesi invita i propri compagni a fermarsi perché ha riconosciuto nel Giordano un vecchio compagno di lavoro. Nell’aria risuonano gli spari di alcuni bracconieri che si sono uniti alla folla.
Allorquando le mura medievali della città cominciano a farsi più nitide e si pensa che il calvario stia per finire, dalla Porta della Regina si vede uscire un’altra banda formata da centinaia di esagitati. Lo scontro è inevitabile e la caccia all’uomo non trova ostacoli. Per mettere fine al massacro, il capitano fa sparare in aria. Quando si riesce a ripartire, in terra giacciono sei cadaveri.
Svoltato l’angolo delle mura, la strada si restringe. Enormi pietre vengono lanciate da ogni parte. “Come bestie portate al macello – scrive il Procuratore generale – gli italiani si sdraiano sulla strada, sfiniti, aspettando la morte, lapidati, storditi, lasciando a ogni passo uno dei loro”. Un certo Buffard, tenendo il manico di una pala con le mani, colpisce i feriti con inaudita violenza. Qualcuno si salva fingendo di essere morto. Per un altro italiano, però, non ci sarà scampo.
Si riesce a porre in salvo la trentina di sopravvissuti nella vicina Torre di Costanza. Alle 17 giunge da Nîmes la truppa tante volte richiesta nel corso della giornata. Il capitano con alcuni uomini si reca sui luoghi del massacro con alcuni carretti. Caricano sette cadaveri e diciassette feriti che trasportano nell’ospizio cittadino gestito da suore.
La mattina del giorno successivo, 18 agosto, vengono fatti fotografare i sette morti che saranno sepolti anonimamente in una fossa comune nel cuore della notte. Le foto vengono consegnate al console italiano a Marsiglia Bartolomeo Durando, il quale il 20 è arrivato ad Aigues-Mortes, ai fini dell’identificazione. Durando, accompagnato dall’assessore Advenier che è anche agente consolare italiano, fa visita ai feriti (“assaliti con randelli, mazze, pietre e forconi per finirli come si farebbe contro i cani idrofobi” scriverà) che sono rimasti all’ospizio perché intrasportabili. Uno di essi, il ventinovenne pinerolese Vittorio Caffaro, morrà di tetano il 17 settembre dopo atroci sofferenze.
Gli altri italiani già nel tardo pomeriggio del 17 sono stati fatti salire su un treno alla volta di Marsiglia. Chi non risiede in Francia o non deve farsi medicare nel locale ospedale prosegue per l’Italia. Tra questi, c’è Amaddio Caponi, trentacinquenne di San Miniato (Pisa). Sul treno si sente male. Viene fatto scendere alla stazione di Porto Maurizio e portato nel locale ospedale dove morrà il 26 agosto. La sua famiglia riceverà l’indennizzo di 19.000 lire.2
Al ritorno di Durando in Consolato, si cerca di identificare le vittime tramite le foto, si stende la lista degli operai italiani presenti nelle saline e quella dei dispersi. Per le prime due operazioni ci si rivolge ai connazionali che sono rimasti in Francia e in particolare ai capisquadra; per la terza, si registrano testimonianze “Con me c’era XX che poi non ho più visto” o lettere che pervengono dall’Italia “Mio padre XX non dà più segni di vita, pensiamo si trovasse ad Aigues-Mortes. Si tratta quindi piuttosto di una lista di presunti dispersi che andrà assottigliandosi col passare del tempo. Alcuni autori danno per buona la prima lista contenente quattordici nomi che vengono aggiunti ai “morti ufficiali” per fare un bilancio complessivo. Si ignora che in quella lista si trovano Ernesto Giuliano di Oneglia, Chiaffredo Mainero di Moretta, Ermolao Marconi di Calci, Giovanni Reggi e altri che sono vivi e vegeti come ci informano i successivi documenti consolari. Nessun familiare di questi presunti morti, inoltre, farà domanda di indennizzo all’apposita Commissione governativa che pubblicherà i risultati dei suoi lavori nella Gazzetta Ufficiale del 19.7.1894. Tra i novantasei feriti (“gravemente”, “seriamente” e “leggermente”) che saranno indennizzati si trovano invece alcuni dei nominativi della prima lista dei dispersi.
Nella lista si trova anche il nome di Secondo Torchio del quale abbiamo parlato. La mamma, Teresa Secco, viene a sapere da Carlo Bonello quanto abbiamo più su riferito. È quindi convinta, come afferma al sindaco di Antignano, paese nel quale abita, che suo figlio sia stato ucciso. Non riceve alcun indennizzo perché il corpo di Secondo non è stato ritrovato e non si è quindi sicuri della sua morte. Ancora 13 anni dopo, non avendo più visto il figlio e vivendo nella miseria, reitera, senza successo, la richiesta di indennizzo tramite un deputato locale. È da supporre, invece, che Secondo Torchio sia rimasto vittima dell’omertà, oltre che della follia xenofoba. Il 21 settembre 1893 il vicario di Aigues-Mortes, dà “sepoltura ecclesiastica a uno sconosciuto”. Come escludere che si tratti del corpo di Secondo Torchio ritrovato tra le vigne? Il fatto che la registrazione, malgrado sia passato più di un mese e ci siano state nel frattempo non poche sepolture, venga effettuata immediatamente dopo quella delle vittime inumate dopo il massacro, lascia intendere che il primo a formulare quest’ipotesi sia stato proprio il sacerdote.
Nessuna comunicazione del ritrovamento di questo cadavere fu data alle autorità italiane; probabilmente per non appesantire il, già pesante, contenzioso che le trattative diplomatiche avevano iniziato ad affrontare.

Con ogni probabilità, dunque, le vittime ammontano a dieci. Passiamo rapidamente adesso al problema della loro identificazione. Le testimonianze raccolte in Consolato permettono di identificare cinque dei sette fotografati. Si tratta di Carlo Tasso, 58 anni, di Montalero, oggi frazione di Cerrina (Alessandria); Bartolomeo Calori, 26 anni, di Torino; Giuseppe Merlo, 29 anni di S. Biagio, frazione di Centallo, (Cuneo); Lorenzo Rolando, 31 anni di Altare (Savona); Paolo Zanetti, 29 anni, di Nese, oggi frazione di Alzano Lombardo (Bergamo).3 Alcuni cadaveri non vengono riconosciuti, ma la cosa non è così semplice, infatti le ricerche e le indagini continuano in Italia. I familiari di Giovanni Bonetto, trentunenne di Frassino (Cuneo) emigrato assieme al fratello a Marsiglia da otto anni, fanno in modo che la foto sia fatta pervenire al sindaco del paese che riconosce Giovanni così come lo riconoscono i familiari e vari conoscenti. La Commissione per le indennità è diffidente, ma anche il medico legale incaricato dal questore di Roma riconosce Giovanni sulla base della presenza di tracce di una ferita che egli aveva subìto da adolescente e della quale avevano riferito i familiari. La pratica si incaglia tra i meandri della burocrazia e i familiari di Giovanni Bonetto non riceveranno alcun risarcimento. Se si pensa che di Giovanni a Frassino (né a Marsiglia per quanto si sappia), dopo l’eccidio non si registra alcuna traccia, c’è da pensare che lo Stato abbia mostrato nel suo caso, come in quello di migliaia di altri emigrati, un volto non propriamente umano.

Dopo l’eccidio, circolava la voce che dei cadaveri di italiani potessero trovarsi nelle campagne. Il console Durando richiese alle autorità francesi un’accurata ricerca che non diede alcun risultato. Dalle carte della Commissione per le indennità della quale tutti in Italia erano a conoscenza non emerge alcuna richiesta di indennizzo per decesso a persone diverse da quelle summenzionate.
Le vittime del massacro fino a prova contraria, naturalmente sono quindi dieci: sei piemontesi, un lombardo, un toscano, un ligure e una rimasta non identificata. Non è improbabile che si continui a parlare di “numero imprecisato”, di “50 morti come sostiene il Times”, di corpi “sepolti dalle (inesistenti) sabbie mobili” o “trascinati dalla corrente (uguale praticamente a zero) dei canali”. Ben altro, però come abbiamo visto, è quanto emerge dai documenti che poco spazio lasciano all’immaginazione.

1.   Cfr. Enzo Barnabà, “Aigues-Mortes, una tragedia dell’immigrazione italiana in Francia”, Torino e “Le sang des marais”, Marsiglia che, aggiornati, sono oggi diventati “Morte agli italiani!”, Infinito edizioni, Formigine, 2008 e “Mort aux Italiens!”, Éditalie, Toulouse, 2012.
2.   Cfr. Commissione delle indennità ai danneggiati di Aigues-Mortes, seduta del 13 marzo 1894, Archivio MAE, serie Z, B. 130.
3.   Cfr. Enzo Barnabà, “Mort aux Italiens!”, op. cit. p. 112. Diversamente da quanto scrive Gérard Noiriel in “Il Massacro degli italiani”, Tropea, Milano, 2010, p. 209, Mariano Ferrini di Morrona, frazione di Terricciola (Pisa) non è da annoverare tra le vittime: riceve dalla Commissione la somma di 750 lire a causa delle ferite riportate e inoltre nel 1933 era ancora in vita poiché trasferiva il proprio domicilio da Terricciola a Livorno (Anagrafe di Terricciola).


mercoledì 10 agosto 2016

Il prezzo del sogno Europa: l’indagine “Fake link” e le testimonianze raccolte in “Lungo la rotta balcanica”

111 viaggi per oltre mezzo milione di euro, questi sono i numeri che risultano dall’indagine “Fake link” condotta dalla Sezione anticrimine di Udine che ha portato all'arresto di quattro pachistani con l’accusa di traffico di esseri umani. Secondo l’indagine l’organizzazione richiedeva un importo dai 350 ai 500 euro per il viaggio dal campo profughi di Bicske, in Ungheria, fino in Italia; se il percorso era più impegnativo e utilizzava la rotta balcanica il prezzo oscillava dai due ai 3.000 euro.
Questi dati confermano quanto testimoniato dal libro di Anna Clementi e Diego Saccora dal titolo “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella Storia dell’Umanità del nostro tempo”, nel breve estratto che pubblichiamo qui.
 “Ciao Anna, come stai? Ma come parli bene arabo, sei diventata araba anche tu! Anna, ti devo chiedere un favore. Sono ad Abu Dhabi con la mia famiglia. Abbiamo problemi col visto, non possiamo più rimanere qui. E tor­nare in Siria è impossibile. La mia casa è stata distrutta, tutti i miei parenti se ne sono andati. Abbiamo deciso di andare in Svezia. Da Abu Dhabi in aereo fino in Turchia. E da lì in nave, prima in Grecia, poi in Italia e da lì in Svezia”.
Rimango senza parole. Per un attimo ricordo il volto sorridente e spensierato di Omar a Beit Jabri, seduti nel bellissimo cortile arabo in attesa del kebab che aveva appena ordinato. “Via mare? Ma è pericoloso Omar. At­tento alle impronte”.
“Anna, non abbiamo soluzioni. Sappiamo che è pericoloso. Che l’Italia prende le impronte, e che poi per il regolamento di Dublino saremo costretti a chiedere asilo lì. Ma noi diremo che non vogliamo rimanere in Italia. Lì c’è crisi, non c’è lavoro. Che cosa veniamo a fare in Italia? In Turchia abbia­mo dei contatti di alcuni bravi trafficanti, che ci porteranno in Grecia e poi in Italia per 3.000 dollari a testa. Questo è già organizzato. Ti chiamo per sapere se hai contatti in Italia, come devo fare per raggiungere la Svezia. So che costa 800-1.000 euro a persona e che devo andare a Milano”.

Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella Storia dell’Umanità del nostro tempo racconta un viaggio lungo quella via che dal 2015 rappresenta la porta d’ingresso all’Europa e per la quale sono transitate oltre un milione di persone. Un viaggio nel fango dei campi profughi, in mezzo a donne e bambini incatenati dalla burocrazia; tra le reti e i muri che hanno reso di nuovo l’Europa un continente diviso e ostile; tra sogni che s’infrangono contro la dura realtà fatta di respingimenti e di campi di raccolta in Grecia e in Turchia e in qualunque altro Paese non faccia parte dell’Unione europea.

venerdì 5 agosto 2016

6 agosto 1991, da Ginevra il primo sito web on line


Il 6 agosto del 1991 il ricercatore del CERN di Ginevra Tim Berners-Lee metteva on line il primo sito web, dando così compimento all’idea, partita proprio dai laboratori di Ginevra nel 1989, di elaborare un programma informatico per la condivisione scientifica dei dati: questo software si proponeva di migliorare la comunicazione e la cooperazione tra i ricercatori del CERN permettendo la visualizzazione e condivisione dei dati immessi indipendentemente dalla piattaforma informatica utilizzata. Era l’albore del World Wide Web, comunemente noto con l’abbreviazione WWW o web, la possibilità di navigare e usufruire di un’enorme quantità di dati multimediali e servizi, accessibili dagli utenti di Internet. All’inizio il software, come previsto, venne utilizzato solo dalla comunità scientifica ma, dal 30 aprile del 1993 il CERN decise di rendere pubblica la tecnologia alla base del web. A tale decisione fa seguito un immediato e ampio successo del web in virtù della possibilità offerta a chiunque di diventare editore, della sua efficienza e, non ultima, della sua semplicità. Con il successo del web ha inizio la crescita esponenziale e inarrestabile di Internet ancora oggi in atto, nonché la cosiddetta "era del web".

giovedì 4 agosto 2016

Lo #sport batte il #bullismo e il #cyberbullismo, parola di Giulia Quintavalle


Giulia Quintavalle è stata la prima italiana a salire sul gradino più alto del podio durante le Olimpiadi di Pechino nella sua specialità, il judo. La sua esperienza di atleta, la sua tenacia da campionessa e la sua passione infinita l’hanno portata a ottenere un traguardo unico. La sua grande sensibilità la avvicina ai giovani e il suo occhio attento individua nello sport una strategia sana e vincente per combattere due fenomeni quanto mai odiosi, il bullismo e il cyberbullismo. Luciano Garofano e Lorenzo Puglisi indagano questi comportamenti molestatori nei confronti di un soggetto più debole o psicologicamente più fragile nel libro dal titolo La prepotenza invisibile. Bulli e cyberbulli: chi sono, come difendersi. Identikit del bullo e della sua vittima, testimonianze dei parenti delle vittime e del mondo della scuola fanno parte di un libro che dovrebbe essere letto e diffuso in quanto la conoscenza è un’arma efficacissima. Per i nostri lettori e per la stampa riportiamo il testo che la campionessa Giulia Quintavalle ha voluto scrivere questo libro.

“Il bullismo è un tema a me caro, che seguo da vicino come testi­monial della campagna 2015 del progetto Elios (Energia Olimpi­ca contro il cyberbullismo), promossa dall’Osservatorio Nazionale sul Bullismo e Doping. Da sportiva e da mamma considero il bullismo e il cyberbullismo due brutte bestie: è importante conoscerle e capirle per aiutare le vittime a difendersi dai bulli reali e virtuali. Per questo con­sidero questo libro un piccolo passo per iniziare a riflettere sulle cause che portano giovani uomini e donne senza distinzione sociale ad agire con violenza, cattiveria e rabbia verso i propri coetanei, che molto spes­so per vergogna o paura si nascondono nel silenzio e nella sofferenza.

Come atleta di Judo quando mi trovo ad affrontare un avversario ho il tempo per conoscerlo, studiarlo, capire le sue tecniche migliori e prepararmi al meglio per vincerlo; quando si tratta di bullismo e cyberbullismo, invece, la vittima è colta impreparata, anzi molte volte sono le persone più deboli a venir colpite proprio perché fragili e con minori difese. È importante sensibilizzare i giovani e le loro famiglie al rispetto delle regole, ma soprattutto dell’altro, e non importa quale sia la lingua, la religione, il colore della pelle, se sia un diversamente abile o un normodotato (come si usa dire oggi): l’importante è promuovere lo sport come mezzo di prevenzione riguardo questi temi, portando avanti valori di lealtà, onestà e correttezza.

Come mamma credo che la famiglia, oltre alla scuola, giochi un ruo­lo determinante: è il primo luogo in cui il bambino deve conoscere e imparare regole e valori, perciò è fondamentale che cresca in un am­biente solido e comunicativo. Saper ascoltare i propri figli è il primo dovere di ogni genitore. Da atleta sono convinta che sia fondamentale abituare fin da piccoli i ragazzi a frequentare ambienti sportivi sani, in cui imparino a confrontarsi con gli altri secondo regole ben precise, ad avere obiettivi vincenti raggiungibili con sacrificio e costanza; ma so­prattutto che lo sport insegni ai giovani atleti ad accogliere la sconfitta sempre con un inchino, come accade nel mio sport all’inizio e alla fine di ogni combattimento.

Leggendo questo libro avrete capito quanto sia necessario parlare di bullismo e di cyberbullismo. Non dobbiamo essere più vittime ma atto­ri vincenti, conoscendo le varie forme in cui si può manifestare il bul­lismo, confrontandoci e soprattutto denunciando situazioni e persone. Non dobbiamo e non dovete aver paura – mi rivolgo soprattutto a voi genitori – fate fare sport ai vostri figli, li aiuterà a crescere in modo più sano e forte, trasformando le loro paure in punti di forza e da vittime potranno diventare persone adulte consapevoli e meno sole!”.

mercoledì 3 agosto 2016

Ambiente tra millennials e family bag – “La sfida di oggi”


I millennials, così viene definita la generazione di giovani nati tra il 1982 e il 2000, sono sempre più coscienti del peso delle scelte alimentari sull'ambiente. Lo si legge in una ricerca condotta su 800 ragazzi tra i 18 e i 30 anni in tutta Italia: sei ragazzi su dieci considerano le diete sostenibili - quelle che si basano sui cibi della dieta mediterranea - "sicure dal punto di vista nutrizionale (73%) e senza particolari ripercussioni sulla vita sociale (64%)". Il 61% degli intervistati sostiene però che siano care, quindi non sostenibili economicamente e, per il 43%, offrono pochi alimenti alternativi. I giovani sono anche precursori della volontà del legislatore: è notizia di oggi l’approvazione della legge contro lo spreco alimentare. La norma, che riprende lo spirito di Expo 2015, definisce per la prima volta nell'ordinamento italiano i termini di "eccedenza" e "spreco" alimentari, fa chiarezza tra il termine minimo di conservazione e la data di scadenza, e punta a semplificare le procedure per la donazione, nel rispetto delle norme igienico-sanitarie e della tracciabilità. Rispetto alla norma approvata in Francia pochi mesi fa su questo tema, che si basa sulla penalizzazione, quella italiana punta sugli incentivi e sulla semplificazione burocratica. Consente la raccolta dei prodotti agricoli che rimangono in campo e la loro cessione a titolo gratuito. Dice in modo chiaro che il pane potrà essere donato nell'arco delle 24 ore dalla produzione. E, per ridurre gli sprechi alimentari nel settore della ristorazione, permette ai clienti l'asporto dei propri avanzi con la family bag.

Buone pratiche e sensibilità ambientale vanno incontro allo spirito del libro di Andrea Merusi dal titolo La sfida di oggi. Il cambiamento climatico e il rapporto tra uomo e natura,  in cui l’autore analizza lo stretto legame tra cambiamento climatico e fattore umano e propone idee e suggerimenti per invertire la rotta.

martedì 2 agosto 2016

Il viaggio, le frontiere e un lancio di dadi: “Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella Storia dell’Umanità del nostro tempo”


“Partiamo, in direzione ostinata e contraria, viaggiando con mezzi pubblici, per ripercorrere a ritroso la rotta balcanica. Dall’Italia alla Grecia, da Venezia a Ido­meni, incontro a racconti di donne e uomini, a una parte della Storia dell’Umanità. La vediamo scorrere, da finestrini di treni, autobus e taxi; ineluttabile, davanti ai nostri occhi, si materializza in un flusso inarrestabile e incontenibile di bambini, madri e padri, giovani e anziani.

Partiamo, da privilegiati, con in tasca un documento dalla copertina marrone, lasciapassare per ogni varco, tappezzato di timbri di Paesi lon­tani che ritroviamo vicini nei volti delle persone lungo il nostro e il loro tragitto. Qui, si intersecano. Ovunque.

Partiamo, alla ricerca dell’altro e di noi stessi, verso i confini di un’Eu­ropa che discrimina e respinge, trasformando individui in numeri, in sigle, in pezzi di carta.

Tut­to è incerto e precario. Come in un gioco dell’oca, dove il passo successi­vo dipende dal lancio di un dado e dagli imprevisti durante il cammino; dove a segnare il destino di un uomo è qualcosa di arbitrario e di aleato­rio, quasi mai dettato dalla fatalità del caso: il dito puntato di un poli­ziotto di frontiera che blocca la strada, il pugno di ferro tra Paesi limitrofi che getta gli esseri umani nel dimenticatoio delle “terre di nessuno”, un documento di identità con una nazionalità che non piace”.

Lungo la rotta balcanica. Viaggio nella Storia dell’Umanità del nostro tempo racconta un viaggio lungo quella via che dal 2015 rappresenta la porta d’ingresso all’Europa e per la quale sono transitate oltre un milione di persone. Un viaggio nel fango dei campi profughi, in mezzo a donne e bambini incatenati dalla burocrazia; tra le reti e i muri che hanno reso di nuovo l’Europa un continente diviso e ostile; tra sogni che s’infrangono contro la dura realtà fatta di respingimenti e di campi di raccolta in Grecia e in Turchia e in qualunque altro Paese non faccia parte dell’Unione europea.

Questo libro “si inserisce nello sforzo di raccogliere quante più storie possibile perché rimangano oltre la cronaca destinata all’oblio. Perché nessuno merita d’essere dimenticato”. (Lorenzo Trombetta)

Bianca, una protagonista e vittima della strage di Bologna del 2 agosto 1980


Oggi cade l’anniversario della strage di Bologna, avvenuta nella sala d’attesa della stazione centrale bolognese alle 10,25, per l’esplosione di un ordigno a tempo. Vogliamo ricordare questo episodio gravissimo della nostra storia con le parole del nostro Angelo Lallo che ha ripercorso quelle ore nello splendido e intenso libro dal titolo Mala Dies. L'inferno degli ospedali psichiatrici giudiziari e delle istituzioni totali in Italia

“I giorni di Bianca passarono sempre uguali, tra giardino, qualche passeggiata, molte letture. Viveva come sospesa nell’aria, senza interessi, senza niente. Tutti le volevano bene, si mi­metizzava nell’ambiente, e il suo cruccio più grande era di non ave­re mai avuto una visita di qualche familiare. Aspettava con ansia che luglio passasse. I suoi genitori sarebbero arrivati all’inizio di agosto dalla Svizzera. La ragazza, sempre più nervosa, sapeva che ormai c’era davanti solo una settimana. Al telefono la mamma di Bianca le disse che sarebbero arrivati nella tarda mattinata del primo sabato d’agosto; purtroppo potevano stare solo un giorno, dovevano ripartire già nella giornata di domenica. Il 2 agosto 1980 faceva un caldo incredibile, non si respirava. Bianca aspettava trepidante, guardando la tv, come al solito senza audio. Ma non occorreva il sonoro per capire che qualcosa era successo. Una stazione devastata, immagini terribili. Bianca alzò il volume. Un’edizione speciale del telegiornale portò in tutte le case d’Italia la notizia che lo scoppio di una caldaia aveva distrutto la sala d’aspetto della stazione di Bologna. L’esplosione aveva investito un tre­no in sosta nel primo binario provocando una strage immane, con oltre ottantacinque morti e duecento feriti.

Bianca si sentì coinvolta e incominciò a tremare perché a quell’ora il treno dei suoi genitori era dato in arrivo alla stazione di Bologna direttamente dalla Svizzera. Il treno doveva star fermo quasi un’ora per la coincidenza, c’era tanto caldo, qualcuno poteva andare al buffet della stazione per acquistare una bottiglia d’acqua. Bianca telefonò subito ai suoi genitori in Svizzera, ma il telefono squillava a vuoto. Dieci, venti volte, niente. Di sicuro erano partiti. Bianca s’era incollata alla televi­sione, muta, senza respiro. Non le restava che aspettare il pomeriggio; per arrivare da Bologna occorrevano quattro ore: insomma alle sedici o alle diciassette avrebbe abbracciato i genitori.

Ma il campanello della comunità terapeutica non suonò né alle di­ciassette né mai. Dopo varie telefonate a vuoto, Bianca chiamò una fa­miglia italiana che abitava nello stesso condominio svizzero dei genito­ri. I vicini confermarono la partenza dei suoi perché s’erano incontrati qualche giorno prima in un supermarket e, chiacchierando, avevano saputo del viaggio in Italia.

Bianca non poteva più aspettare, l’ansia era ormai a livelli di guardia. Il dubbio che i genitori fossero sotto le macerie l’agitava enormemente. Era come assalita da una forza enorme, doveva fare qualcosa. Decise di partire per Bologna ed ecco che i soldi messi da parte e sempre ben na­scosti le sarebbero serviti per il viaggio. Aspettò l’alba, poi scappò dalla comunità terapeutica, senza dire niente a nessuno, per prendere il primo treno per Bologna e nella sua mente incominciò a balenare l’idea di non far più ritorno in quella struttura. Durante il viaggio, il suo sguardo era incollato al finestrino, non vedeva l’ora d’arrivare a Bologna, ma giunta in stazione Bianca realizzò subito che quella non era la Bologna del ‘77. La gioiosa città del Movimento non c’era più perché, ancora una volta, i fascisti avevano provocato una strage. In treno la gente aveva parlato solo di questo, nello scompartimento le persone erano dell’idea che solo una bomba avrebbe potuto procurare tutti quei danni. Nessuno credeva alla caldaia, era il solito infame depistaggio, spazzato via alla vista del cratere prodotto dalla bomba, un’enorme buca provocata da ventitré chili di tritolo, T4 e nitroglicerina. Depistaggi inutili, perché la bomba era di matrice fascista, senza ombra di dubbio. (…)

Bianca si diresse immediatamente nella camera mortuaria dell’ospe­dale Maggiore e incominciò la triste opera di riconoscimento dei corpi: una donna senza testa, uno senza gambe, i corpi sembravano manichini. (…) Fra quelle persone non risultavano i genitori di Bianca, ma il calvario non era finito perché c’erano da visitare ancora due ospedali. Il comune di Bologna aveva messo in piedi un’organizza­zione perfetta: oltre alle auto gratis, aveva consegnato a ogni familiare un voucher per vitto e alloggio per una notte. Opera meritoria, segno della civiltà di una splendida città.

Bianca visitò gli altri due ospedali e per sua fortuna non trovò niente. Era il momento di fermarsi un attimo, decise di mangiare qualcosa. Era stanca morta, avvilita; entrò in un bar, prese dei gettoni telefonici e meccanicamente fece il numero telefonico dei suoi genitori in Svizzera. Muto, ancora. Ma dopo otto, nove, dieci squilli, qualcuno rispose: era la mamma. Bianca ammutolì e poi con le parole rotte dal pianto riuscì a parlare con fatica: «Ciao mamma, sono Bianca».
«Cara Bianca, non siamo più partiti perché il papà è stato male».
«Non importa».
«Abbiamo saputo della strage alla stazione di Bologna. Quel treno poteva essere il nostro e poi sai che noi andiamo sempre nel bar della stazione per un caffè, prima di prendere la coincidenza. Quanti morti, quanta disperazione! Tuo papà ha pensato subito a te, ma non voleva­mo farti preoccupare…».

Bianca salutò la mamma in fretta, i gettoni erano finiti ma quelle poche parole erano servite a calmarla. Rinfrancata, mangiò un panino e poi, a piedi, s’incamminò verso la stazione in un caldo asfissiante. Durante il tragitto, si fermò per un attimo nei luoghi del ‘77. Non aveva più ricordi, tutto cancellato. Era svuotata, inquieta, triste perché era sola, ma Bologna, nonostante tutto, in quel momento appariva bel­la. Finalmente arrivò in stazione, c’era un caos indescrivibile, macerie dappertutto. Rimase affascinata da tante persone straordinarie, volti anonimi, resi irriconoscibili dal sudore e dalla polvere, che lavoravano in un caldo insopportabile per togliere le macerie, da ore senza sosta. Si fermò a guardare l’orologio della stazione, impressionata dalle lancette ferme sulle 10,25, l’ora della strage.

Per andare sui binari, la ragazza esibì al servizio d’ordine della stazio­ne il pass di cui erano stati dotati i parenti delle vittime e dei dispersi; era curiosa di vedere i danni provocati dalla bomba. C’era tanta gente con il volto rigato dal pianto, in silenzio. Una donna anziana, con un fazzoletto nero in testa e una foto in mano, stava in ginocchio davanti alle transenne, vicino al posto dove era morto suo figlio; il ragazzo era stato riconosciuto con certezza dalla carta d’identità. Di colpo, dalle transenne sbucarono degli uomini dall’andamento altezzoso che face­vano strada a un pezzo grosso, nascosto dietro occhiali scuri: qualcuno dei presenti asseriva d’aver riconosciuto un ministro. La donna in nero continuava a implorare con toni sommessi di poter accarezzare il corpo che era sotto a un telo bianco, senza vita, sulla banchina di una stazio­ne. «Ha bisogno di me. – diceva a un addetto – È sporco, devo lavarlo; forse ha freddo, voglio portarlo via, a casa, nella sua stanza. Un giorno, voglio tenerlo con me solo un giorno».

Nonostante il caos totale, non si sentiva volare una mosca. I pre­senti erano di fronte a una scena così struggente da non poter essere descritta con parole adeguate, senza cadere nella commozione e nella pietà. Eppure il ministro, senza fermarsi neanche per dare un segno di consolazione a una madre, con un gesto arrogante della mano intimò perentoriamente di scansare quella donna che intralciava il suo passag­gio. E uno della scorta, con modi altrettanto bruschi, nonostante le proteste di decine di persone, prese la signora per le braccia, da dietro, e la trascinò via appoggiandola al muro.

Bianca assistette alla scena ammutolita, però sentiva la rabbia salire, montare sempre di più. Il suo viso diventò prima rosso poi quasi viola dall’ira. Con tutta la forza verbale che possedeva, rivolse dure parole al corteo ministeriale: «Bastardi, come vi permettere di offendere una donna che in un attimo ha perso il senso della vita! Come vi permettete di oltraggiare una madre devastata dal dolore che chiede solo di toccare il suo ragazzo che è lì, senza vita, a pochi metri!».

Bianca tirò fuori la sua indignazione con coraggio, ma ebbe il torto di avvicinarsi pericolosamente al ministro, iniziando un rischioso scontro fisico e innescando una rissa clamorosa tra la scorta e molti cittadini, che avevano preso con decisione le difese della ragazza. Bianca, imme­diatamente arrestata e portata in caserma, fu accusata di vilipendio, oltraggio a corpo politico e resistenza a pubblico ufficiale. Reato asso­lutamente di scarso rilievo, che poteva essere punito con una semplice sanzione, ma qui si trattava di un diverbio violento tra un cittadino e un ministro. In questo caso poteva finire male, come aveva subito detto un avvocato presente alla scena.

Il processo a Bianca venne immediatamente messo a ruolo e in poco tempo si giunse a sentenza. Il giudice, dopo una perizia psichiatrica affrettata e assolutamente errata, decise di comminarle una sanzione durissima, giudicandola “incapace di intendere e volere, ma pericolosa socialmente” e disponendo il suo invio nell’inferno dell’ospedale psi­chiatrico giudiziario.

Ma come è possibile distruggere la vita di una persona per un episo­dio così banale? È possibile inviare in manicomio criminale una donna perfettamente sana di mente per un fatto così modesto? Date le cir­costanze altamente drammatiche, il diverbio tra Bianca e il politico non doveva neanche essere preso in considerazione. Questa volta la giustizia non fu tollerante con Bianca e la disposizione divenne imme­diatamente esecutiva.”

 

Il testo è liberamente disponibile citando la fonte ©Infinito edizioni – 2016 – www.infinitoedizioni.it