La rivoluzione iraniana del 1979,
con il suo prezzo altissimo di sangue e di verità, con le lacerazioni
insanabili e con le ferite solo in parte ricomposte, è ormai una parte
fondamentale, imprescindibile della storia e dell’identità del Paese. La
rivoluzione ha toccato la vita di milioni di iraniani: ha diviso e lacerato
famiglie, distrutto vite e carriere, dato speranze illusorie e liberato energie
insospettabili, affossato e realizzato sogni, segnando profondamente
l’esistenza sia di chi quegli eventi storici li ha vissuti sia di chi è nato
dopo e ne ha toccato con mano e ne subisce tuttora le conseguenze. Di tutto
questo ci racconta Antonello Sacchetti in Iran
1979. La Rivoluzione, la Repubblica islamica, la guerra con l’Iraq.
Vi invitiamo a seguire l’incontro
che abbiamo organizzato per il prossimo sabato
8 dicembre a Roma, nell’ambito
di Più libri più liberi (Roma Convention Center La Nuvola, viale Asia 40
(zona Eur), con Antonello Sacchetti,
Luca Giansanti e Farian Sabahi (ore 13,00 – sala Vega).
Torniamo a quei giorni di
quaranta anni fa grazie al ricordo di una testimone diretta.
“Il 5 dicembre 1978 partimmo per Teheran con due sole valigie e la bambina
di sette mesi. I miei genitori erano morti di paura ma io non volli sentire
ragioni. Arrivammo a Teheran alle undici della sera. Si era appena consumata
una carneficina, c’erano i carri armati nelle strade
e fummo costretti a rimanere in aeroporto fino alle sette del mattino.
Fu quello il nostro primo impatto con la rivoluzione. I giorni seguenti imparammo
a vivere col coprifuoco: non si poteva uscire dopo le due del pomeriggio. Le
persone allora salivano sui tetti delle case e urlavano slogan come: “Morte
allo scià, servo degli Usa”. Anche i bambini li gridavano mentre giocavano a
campana, fino a notte fonda. Un giorno venimmo a sapere che avevano occupato la
sede della tv e poi le caserme. Da qui molti giovani prelevarono le armi e
sparavano senza saper sparare, i proiettili rimbalzavano, era molto pericoloso
e infatti tanti giovani morirono cosi.
In casa dormivamo in terra, perché usavamo i letti per parare le finestre (le
persiane, infatti, in Persia non esistono). Al piano di sotto era entrato un
proiettile di rimbalzo e ci eravamo spaventati. Ricordo anche lo smog pazzesco,
i riscaldamenti a nafta che producevano un odore pungente nelle case e le
nuvole nere sopra Teheran. Ero trattata molto bene in famiglia anche se
vivevamo quei momenti con molta fatica per il razionamento del pane e della
nafta. Non si trovavano più pannolini, quindi dovevo lavare quelli di stoffa, e
mancava l’acqua calda. Persino la carta era difficile da trovare. Di quelle
settimane ricordo le grandi manifestazioni, con gli
elicotteri della polizia che sparavano sulla folla. Io indossavo il chador, pur non essendo musulmana, perché era un simbolo di
protesta contro lo scià. Tantissime donne lo indossavano, ricordo queste onde
umane nelle strade».