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mercoledì 4 gennaio 2012

La fame nel mondo e i biocarburanti, la postfazione di Edoardo Maturo al libro di Daniele Scaglione “La bicicletta che salverà il mondo”



Nel 2011, anno in cui ricorre il 150° anniversario dell’unità d’Italia, il nostro Paese sembra essere stato invaso da una nuova ondata di partecipazione politica. Tra qualche anno, nei libri di storia, leggeremo che nel 2011 gli italiani hanno deciso di schierarsi in maniera netta e decisa contro la privatizzazione di una risorsa naturale così importante come l’acqua e, a distanza di oltre vent’anni dalla prima volta, contro il nucleare. Purtroppo quello che non leggeremo è che la fame è stata sconfitta. Sembra incredibile ma nell’era del biologico e della cucina fusion la fame è ancora la prima causa di morte al mondo.
Questo perché la fame è il prodotto di egoismi, di sfruttamenti, della mancanza di volontà politica; un prodotto presente ogni giorno sulle tavole di un miliardo di persone al mondo. La Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’agricoltura e l’alimentazione, dice che
sono diversi gli ingredienti di questo prodotto: cambiamenti climatici, speculazioni finanziarie, svalutazione del dollaro, incremento nel consumo di carne, aumento del
prezzo del petrolio. A tutti questi ingredienti la Fao ne aggiunge anche un altro, forse meno famoso dei precedenti: i biocarburanti.
Sgombriamo subito il campo da qualsiasi dubbio: parlare di biocarburanti significa parlare di fame. Non credete quindi a chi vi dice che i biocarburanti sono la soluzione all’inquinamento, a chi assicura che rappresentano la panacea al surriscaldamento del pianeta e nemmeno a chi sostiene che sono la nostra unica soluzione energetica. Credete piuttosto alle storie vere di persone che la sera sentono lo stomaco brontolare per colpa della nostra insaziabile sete di energia. Mai come oggi la parola ecologia è entrata nel nostro vocabolario quotidiano anche se ancora troppe poche persone sono disposte a rinunciare alla propria automobile, nemmeno per andare a comprare il pane dietro casa…
Di certo c’è che, con il petrolio che sta finendo e la Terra che sta diventando più bollente di un forno a microonde, è necessario fare qualcosa. Se ne sono accorti perfino i grandi della Terra. Non per ragioni filantropiche né tanto meno ecologiste, intendiamoci. Piuttosto perché sull’energia, da sempre, si gioca la delicata partita degli equilibri geopolitici sullo scacchiere internazionale.
Prendete ad esempio il Brasile e scoprirete che non è un caso che negli ultimi anni sia diventato una superpotenza mondiale. La ragione, provando a semplificare la situazione, ha un nome e un cognome: canna da zucchero. Nello stato sudamericano da anni usano il bioetanolo per far camminare le automobili, tanto che, per la prima volta nella storia, nel Paese sudamericano la vendita di bioetanolo ha superato quella della benzina. Utilizzando
un’iperbole potremmo dire che la canna da zucchero, così come lo fu la veste bianca in khadi di Ghandi, è diventata per il Brasile il simbolo dell’indipendenza dalla
fame, dalla malnutrizione, dalla miseria. In una parola, dalla povertà.
Così se una volta coltivavamo canna da zucchero, mais, grano, soia per riempire le nostre pance, e per fare due chilometri andavamo tranquillamente a piedi, adesso coltiviamo canna da zucchero, mais, grano, soia, per riempire i serbatoi dei nostri nuovi fiammeggianti Suv con cui facciamo i due chilometri che ci separano dal panettiere o magari proprio dalla palestra dove andiamo a bruciare i grassi di troppo. Se non altro, ci consoliamo, inquiniamo poco… Sbagliato! Sbagliato perché abbattere una foresta, riconvertire quel terreno in una coltivazione intensiva, utilizzare i trattori per dissodare la terra e i diserbanti per proteggere le piante e infine trasportarle a casa nostra con l’aereo non è certamente il modo migliore per ridurre le emissioni inquinanti. Lo certificano diversi studi autorevoli: considerando l’intero processo produttivo, i biocarburanti producono quasi la stessa CO2 delle energie fossili.
I più fieri sostenitori dei biocarburanti potrebbero obiettare che perfino respirando produciamo CO2. D’accordo. Però dobbiamo avere anche il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. I biocarburanti sono la nuova frontiera del colonialismo. Cambiano i fattori ma il risultato è sempre lo stesso: una volta andavamo in Africa per schiavizzare le persone, poi con le cannucce per succhiare via il petrolio dalla terra o con il piccone per scrostare i diamanti dalle miniere; oggi andiamo in Africa con la pala e il rastrello alla ricerca di ettari di terra che noi non abbiamo.
La direttiva europea sulle energie rinnovabili, infatti, stabilisce obiettivi che difficilmente potremo raggiungere contando solo sulle nostre forze. Le stime dicono che l’Europa, per produrre il 20 per cento del proprio fabbisogno energetico da fonti rinnovabili entro il 2020, avrebbe bisogno di una superficie grande come due volte il Belgio da destinare alla produzione di biocarburanti.
Non stupiamoci quindi se le aziende europee e americane, con la copertura economica dei governi del Nord e quella politica dei governi del Sud, si stanno accaparrando intere regioni in Africa, Asia e America Latina. Spostano forzatamente le popolazioni dalle terre sulle quali vivono e lavorano da generazioni. Insomma, i biocarburanti sono un problema maledettamente serio. Non c’è da scherzarci su, nonostante il premio Nobel per la Chimica Paul Crutzen sostenga che i biocarburanti – convertendo più del previsto l’azoto dei fertilizzanti in ossido d’azoto, il gas esilarante – ci faranno morire dal ridere. I biocarburanti ci faranno morire, è vero. Ma non dal ridere. Perché, secondo la Banca
Mondiale, il 75 per cento dell’aumento dei prezzi alla base della recente crisi alimentare è stato causato proprio dalla folle rincorsa ai biocarburanti. Perché, nonostante le continue promesse dei governi di tutto il mondo, la fame causa più morti di terremoti, epidemie, guerre. Perché, nonostante una persona su sette al mondo soffra la fame, le multinazionali espropriano terre e distruggono habitat che non gli appartengono. Perché dal 2007 a oggi
la malnutrizione cronica è aumentata di due persone al secondo. Perché per produrre cinquanta litri di bioetanolo servono duecentotrentadue chili di mais, cioè quanto servirebbe per sfamare un bambino per un intero anno.
È per tutte queste ragioni che ActionAid ha deciso che non era più possibile tacere sui biocarburanti. Con la campagna Operazione Fame abbiamo dichiarato guerra alla più grande catastrofe dei giorni nostri, la prima causa di morte dal Guatemala alla Cina, perché crediamo che la fame possa e debba essere sconfitta. Basta solo un po’ di buona volontà. Da parte dei governi, in primo luogo.
Ma anche da parte nostra, perché le scelte che compiamo ogni giorno hanno un impatto più grande di quanto pensiamo. Per esempio, quando prendiamo la macchina per fare quei due chilometri, non pensiamo che riducendo i nostri consumi di energia ridurremmo i consumi totali di energia del nostro Paese, permettendo al governo di fare minor ricorso ai biocarburanti per raggiungere gli obiettivi europei. Adesso tocca a ciascuno di noi fare il
primo passo, o meglio, la prima pedalata, rispolverando magari quella bici che da tempo giace in cantina per andare a comprare il pane dietro casa.


Per informazioni, Infinito edizioni: 06/93162414
Maria Cecilia Castagna: 320/3524918