Da questa
profonda, radicata e motivata convinzione è nato un libro molto bello, di
quelli che si leggono d’un fiato e possono cambiare la prospettiva nella vita
di una persona: “La bicicletta che salverà il mondo”, di Daniele Scaglione
(Infinito edizioni, 2011, pagg. 128, € 12.00, giunto alla seconda edizione).
Scaglione
non è un utopista ma, al contrario, è un uomo razionale oltre a essere un
impegnato operatore nel campo della difesa e del rispetto dei diritti umani,
lavoro che svolge con ActionAid, ong tra le più importanti a livello
planetario, particolarmente impegnata nel campo della lotta contro la tragedia
(e lo scandalo!) della fame. Nel suo libro racconta, dati alla mano, dei danni
spaventosi che il modello di sviluppo corrente – basato sul consumo abnorme di energia
e sull’abuso di petrolio e carbone – sta provocando a tutti noi e ai nostri
figli e di come basterebbe rivedere questo modello, con semplicità, per
salvarci e salvare chi vive con noi. Come? Ce lo racconta nel libro ma lo
accenna, con grande padronanza, anche nell’intervista qui di seguito.
Daniele, il titolo del tuo nuovo
libro potrebbe quasi far pensare a un’opera carica d’utopia e lontana dalla
realtà. Invece già dalla lettura delle prime pagine del tuo “La bicicletta che
salverà il mondo” ci si trova davanti a un libro scritto come sempre con grande
delicatezza e al contempo ricco non solo di dati ma anche di proposte. Puoi
spiegarci allora come una bicicletta – o forse, meglio, “la” bicicletta – potrà
salvare il nostro spossato pianeta?
È notizia
di questi giorni che se ciascuno di noi sostituisse 5 chilometri di quelli che
fa in auto con 5 chilometri percorsi in bici, le emissioni nocive potrebbero
essere ridotte del 50 per cento. Cinque chilometri sono davvero pochi, sono
alla portata di quasi tutti e grazie a così poco vivremmo meglio e, soprattutto,
potremo lasciare dell’aria respirabile ai nostri figli. Questo è solo un primo
esempio, strettamente connesso alla condizione di vita di noi italiani; nel
libro ce ne sono altri. Il titolo usa l’articolo determinativo , “la” bicicletta che salverà il mondo,
perché il riferimento non è a qualcosa di astratto, qualcosa di generico, ma
alla mia, alla tua, alla nostra bicicletta. Insomma, è un modo per dire che il
mondo – e soprattutto chi lo abita – si può salvare grazie a qualcosa che posso
fare io, che puoi fare tu, che possiamo fare noi.
Con il tuo aiuto, mi piacerebbe
provare in quest’intervista a sfatare un po’ di luoghi comuni. Cominciamo dal
primo: il pianeta Terra sta scoppiando perché siamo troppi e quindi non c’è
cibo per sfamare tutti…
Oggi si
produce cibo a sufficienza per sfamare a sufficienza chiunque abiti il pianeta
e anche un bel po’ di gente che si aggiungerà in futuro. Certo, con il tempo e
con la crescita della popolazione dovrà aumentare anche la produzione di cibo,
ma oggi la situazione è questa. Le persone non muoiono di fame perché mancano
gli alimenti, muoiono di fame perché la distribuzione di questi alimenti è
ingiusta. L’80 per cento di chi produce cibo ne consuma solo il 20 per cento. È
assurdo, eppure funziona così: perché il cibo è diventato oggetto di
speculazione finanziaria, perché le attuali leggi del mercato fanno sì che
alcune grandi multinazionali del settore alimentare possano arricchirsi mentre
i contadini del Sud fanno la fame. Al mondo c’è una sola cosa che si vende più
del caffè: il petrolio. Chi coltiva caffè dovrebbe dunque essere ricoperto
d’oro. Invece, se andiamo a vedere cosa accade, ad esempio in Guatemala, ci
accorgiamo che i contadini soffrono la fame. Gli affari d’oro, con il caffè, li
fanno invece i grandi distributori, i grandi marchi.
Un altro luogo comune: nel terzo
mondo si fanno troppi figli per ignoranza, per mera arretratezza culturale,
direi quasi per una sorta di “primitività” che razzisticamente vogliamo
attribuire al Sud del mondo da cittadini del cosiddetto Nord…
Beh,
perché pensarla così è più comodo, no? Se soffrono la fame non è colpa nostra,
sono loro che, non sapendosi controllare, mettono al mondo un sacco di figli,
grazie che poi non hanno da mangiare per tutti. Eppure non dovremmo far fatica
a capire che questo modo di ragionare è assurdo, perché ci siamo passati anche
noi, in tempi recentissimi. Mio padre – non sto dicendo il mio bisnonno e
neppure mio nonno, ma mio padre – è l’ultimo di otto fratelli. I suoi genitori
hanno messo al mondo così tanti figli perché erano contadini, e i figli
costituivano forza lavoro per la terra. In tempi ancora più recenti, stessa
storia per Francesco Moser, come racconta nella prefazione del libro: la sua
famiglia era numerosa, e lui a tredici anni ha abbandonato la scuola per andare
a lavorare nei campi. Oggi in tanti Paesi del Sud del mondo la situazione è
identica: i poveri sono spesso contadini, o persone che comunque vivono in
contesti rurali, e mettere al mondo tanti figli è un modo per cercare di uscire
da una condizione di povertà o miseria.
Il terzo luogo comune: la
bicicletta è un antiquato e al limite romantico giocattolo per il fine
settimana, non un mezzo di trasporto…
Luogo
comune, questo, molto ben radicato prima di tutto nella testa degli
amministratori delle città, di destra come di sinistra. Molti di loro, in
campagna elettorale, li vedi ritratti a bordo di fiammanti biciclette (troppo
fiammanti per pensare le usino davvero…) ma poi, una volta eletti, non sanno
far altro che assegnare la questione delle biciclette alla buona volontà
dell’assessorato all’ambiente, e non a quello dei trasporti. Io vivo in due
città meravigliose, Torino e Roma. In entrambe la bicicletta potrebbe aiutare a
risolvere radicalmente il problema della qualità della vita e dell’inquinamento
che, soprattutto a Torino, è a livelli spaventosi. Ma gli amministratori non ci
credono, perché vedono le biciclette appunto come una cosa romantica, da tirare
fuori al più nelle domeniche a piedi. L’ex sindaco di Torino, Chiamparino, in
un’intervista disse più o meno che bisogna essere realistici, che un sindaco
non può raccontare che va in bicicletta se si hanno quindici appuntamenti
diversi al giorno. Vorrei rispondergli che forse questo vale per chi si sposta
con l’auto blu, non ha problemi di parcheggio e può passare nelle corsie
preferenziali, ma se un cittadino comune davvero dev’essere in quindici posti
diversi al giorno, in città come Torino e Roma o usa la bicicletta o si spara!
Infine: i biocarburanti da mettere
nei serbatoi delle nostre automobili salveranno il mondo…
L’Unione
europea dice ai suoi Paesi membri: gente, dovete ridurre le emissioni nocive
causate dai mezzi di trasporto, fate un po’ come volete ma raggiungete questi
obiettivi. Logica vorrebbe che si riducesse l’uso dei mezzi di trasporto,
almeno laddove è possibile (e nei contesti urbani è assolutamente possibile).
Ma nessuno vuole farlo più di tanto e l’Italia non vuole farlo per niente: è
dura dire a molti cittadini che devono usare di meno l’auto, è dura rinunciare
ai prelievi fiscali sulla benzina, è dura dire alle imprese che vivono di
produzione di automobili e del suo indotto che devono provare a fare anche
altro. Allora ci s’inventa il biocarburante, una benzina prodotta usando canna
da zucchero, mais, grano, soia, con l’idea che così inquineremo di meno. Solo
che il loro impatto positivo sull’ambiente è ancora tutto da dimostrare, mentre
è già chiaro il loro impatto economico negativo – i biocarburanti
economicamente non stanno in piedi: la loro produzione necessita di forti sussidi – nonché sul
diritto all’alimentazione delle persone più povere.
Perché il “Nord” vuole produrre
biocarburanti nelle terre del “Sud”, rubando così milioni di ettari alla
coltivazione per fini alimentari, invece di produrseli a casa propria? È “solo”
una questione di costi di produzione o c’è altro sotto?
C’è
semplicemente il fatto che noi non vogliamo rinunciare alle nostre terre per
combattere il nostro inquinamento. Ti immagini le vigne di Langhe e Monferrato
o quelle toscane che spariscono per fare posto alla jatropha, una pianta non
commestibile da cui si ricavano biocarburanti? Ovviamente non vogliamo farlo.
Certo, in ogni caso non siamo così intelligenti da preservare i nostri terreni
agricoli, che diminuiscono di anno in anno per far posto ad altro tipo di
attività, anche grandi centri commerciali. Pensa al caso dell’Ikea. A sud di
Torino la grande azienda svedese aveva intenzione di costruire uno dei suoi megastore.
Il problema è che il terreno che aveva scelto era un terreno a destinazione
agricola. Il presidente della provincia di Torino ha dunque detto “no, lì non
va bene, quel terreno ha una finalità diversa, scegliamone uno a destinazione
industriale”. Ikea s’è offesa e ha abbandonato il progetto e, naturalmente, il
presidente della provincia s’è beccato critiche da destra e da sinistra, da
forze sindacali e religiose, da opinionisti autorevoli e meno autorevoli,
perché ha fermato “lo sviluppo e l’occupazione”. Ma per quanto riguarda i
biocarburanti, che vanno prodotti da subito su scala massiva, per ora si
ritiene che sia meglio andare a togliere la terra alla povera gente del Sud.
Qual è la politica ActionAid, di
cui sei noto rappresentante, verso i biocarburanti?
La loro
produzione, quando è in contrasto con il diritto al cibo, va fermata, punto a
capo. Basta sussidi, basta andare a depredare terreni a persone che già fanno
fatica a mangiare oggi, figuriamoci se togliamo loro la terra.
Notate da parte di altre ong più o
meno grandi di ActionAid una sensibilità in linea con la vostra o al momento
siete isolati sul tema?
Per
fortuna è un tema che anche altre organizzazioni sentono come importante, sia
organizzazioni ambientaliste come Greenpeace, sia quelle per lo sviluppo come
Oxfam. Manca del tutto, invece, la sensibilità da parte delle forze politiche,
nonché la consapevolezza del problema da parte di molti cittadini. Ma ci stiamo
lavorando, La bicicletta che salverà il
mondo è stato scritto anche per questo, no?
Una domanda difficile: come
facciamo a insegnare ai cittadini italiani – che normalmente vivono incollati
alle loro automobili – che in bicicletta si può e, forse, si deve?
A fine
ottobre ho presentato il libro a Padova, insieme a Francesco Moser. Con lui
c’era un amico, un coltivatore d’uva. Mi ha illustrato la sua idea, molto
semplice: “Se io fossi sindaco di una grande città – mi ha detto – ma con
poteri veri e forti, salvo rare eccezioni per motivi di salute, proibirei nella
mia città l’uso dell’auto privata, per almeno sei mesi. Sarei odiato,
insultato, minacciato, ma sono sicuro di una cosa: se tengo duro per questi sei
mesi, ce l’ho fatta. Perché dopo sei mesi di bicicletta, la gente non vorrebbe
più tornare indietro. Tutti toccherebbero con mano quanto la loro vita sarebbe
migliore, usando la bicicletta. A quel punto potrei anche ripristinare la
libera circolazione delle auto, tanto nessuno vorrebbe usarla più”. Utopia?
Forse, ma sarebbe bello provare, no? A parole non sono in grado di convincere
nessuno a usare la bicicletta, salvo chiedere un atto di fiducia: provateci,
provateci e vedete come va. Certo, non posso dire a chi vive oltre il raccordo
anulare di Roma, oggi, di venire a lavorare in bici in città. Ma agli altri si.
E anche chi vive fuori raccordo, se mai il nostro Paese diventerà intelligente
e produrrà davvero le piste ciclabili, come ad esempio si fa in Baviera o in
Austria, senza bisogno di andare sempre nella solita Olanda, un giorno potrà
scegliere tra il fare i venti chilometri che lo separano dall’ufficio pedalando
in mezzo al verde o incolonnato su una via consolare. Siamo sicuri che pochi
sceglieranno la prima opzione?
Allora una domanda ancora più
difficile: come facciamo a farlo capire ai nostri governanti e amministratori,
sempre piuttosto proni verso l’industria automobilistica e verso i ricchi
signori del petrolio?
Mandandoli
a casa ed eleggendone altri. Coloro che amministrano oggi le nostre grandi
città avrebbe tutto il potere di promuovere l’uso delle biciclette. E non vengano
a dire che mancano i soldi, perché fare delle ciclabili non costa molto e fa
risparmiare moltissimo in termini di costi sulla salute (che poi si riversano
sulla collettività). Sarebbe un loro dovere prioritario, visto che
l’inquinamento è un problema enorme, considerato che l’impatto sulla salute
delle persone è certo uno dei primi quattro-cinque problemi delle città. Ma gli
amministratori attuali fanno davvero poco: e come si può accettare di essere
amministrati da chi non affronta le priorità vere?
Secondo te, se un ricco signore
lombardo si mettesse a produrre e vendere biciclette invece che carburanti,
riuscirebbe lo stesso a “comprare” Ronaldo per la sua squadra di calcio? Perché
poi, alla fine, parliamo purtroppo anche di questo…
La
risposta è “no”, ma questo perché il mondo del calcio non è un mondo reale. È un
mondo falso, dove si pagano stipendi allucinanti, dove i club falliscono ma vengono
condonati dal fisco (almeno alcuni), dove le società hanno bilanci in rosso ma
tanto un modo per tirare avanti poi si trova sempre. Il mondo del calcio è un
mondo in cui vengono buttati un mare di soldi senza che si producano né
sviluppo né occupazione, quindi la mia risposta è “no” e sono contento che sia
no, perché vorrei che la bicicletta con questo mondo avesse a che fare il meno
possibile. Se però mi chiedi se quello della bicicletta può essere un business
che funziona, la riposta è “sì”. Lo è già stato a fine Ottocento, quando
aziende e singoli individui si sono arricchiti grazie al fatto che le
biciclette erano viste come strumento di progresso ed emancipazione. Ora siamo
di nuovo nella stessa identica situazione: la bicicletta, oggi più che mai, è
uno strumento per costruire un futuro degno di essere vissuto.
Tu sei del Toro: a chi la
regaleresti una bicicletta, a fine stagione, in caso di ritorno in Serie A?