Višegrad è una cittadina della Bosnia orientale che ha
vissuto, a partire dalla primavera del 1992, sotto un regime del terrore e
dell’orrore comandato da un gruppo di paramilitari serbo-bosniaci sostenuti
dall’esercito serbo, guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić. I due si rendono
protagonisti, nel corso di quella terribile estate del 1992, di una serie di
episodi disumani, tra cui l’uccisione a sangue freddo di sette musulmani-bosniaci,
i cui cadaveri vengono gettati nella Drina, e della combustione di cinquantacinque
persone – tra cui una neonata di tre giorni di vita – in una cantina di Pionirska
ulica, nella quale i
Lukić lanciano ordigni incendiari alimentando poi le fiamme per ore con
la benzina. L’orrore continua con toni di questo genere per tutta l’estate,
finché la pulizia etnica ai danni dei musulmani-bosniaci –
che costituivano il 63 per cento della popolazione locale – viene portata a
termine con operazioni di rastrellamento, deportazioni e omicidi di massa di centinaia
di civili all’interno di case private. Circa tremila persone vengono uccise e
fatte scomparire. Il 21 febbraio 2006
Milan Lukić viene messo a
disposizione del Tpi, dopo essere stato catturato in Argentina, nell’estate del
2005. Lukić viene condannato in via definitiva all’ergastolo nel
dicembre del 2012.
Una testimonianza di come, fino ai primi anni Duemila Lukić girasse indisturbato
sul territorio di Višegrad è raccolta dal giornalista Luca Leone in Višegrad. L’odio, la
morte, l’oblio nella
sua intervista a Bakira
Hašečić, una vera Lady Wiesenthal del conflitto in Bosnia-Erzegovina.
“Abbiamo piantato un’altra
volta le tende qui a Kosovo Polje e una sera del 2001 vediamo arrivare una
grossa automobile nera. Un poliziotto della Iptf1
esce dall’auto ed entra nella mia
tenda. Nel farlo, urta con la testa e gli cade il cappello in terra. Esce per
recuperare il cappello e nel frattempo io riesco ad appuntarmi il numero della
targa della macchina. L’uomo torna all’auto e alla radio, parlando con
qualcuno, dice: ‘Chiederò quanti sono’. Allora tutti abbiamo capito di non
avere a che fare con un poliziotto dell’Iptf ma con Milan Lukić in persona. Si
avvicina al portabagagli della macchina, lo apre… era vuoto. Abbiamo pensato
che lui e quello seduto in auto, che lo aveva accompagnato, fossero venuti a
rubarci i viveri, che ci erano stato consegnati proprio quel giorno. Da dentro
la macchina la voce del secondo uomo gridava: “Padrone! Padrone!’, l’urlo che
proprio Lukić lanciava quando entrava nelle case delle sue vittime. Allora
siamo tutti scappati da dentro le tende e ci siamo affrettati verso il
torrente… – ora ride di gusto – …ormai era una prassi consolidata, perché
quando durante la guerra i četnici entravano nelle nostre case noi
scappavamo sempre tutti verso il torrente…”.