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martedì 20 febbraio 2018

21 febbraio 2006, il Tpi inizia il processo contro Milan Lukić

Višegrad è una cittadina della Bosnia orientale che ha vissuto, a partire dalla primavera del 1992, sotto un regime del terrore e dell’orrore comandato da un gruppo di paramilitari serbo-bosniaci sostenuti dall’esercito serbo, guidato dai cugini Milan e Sredoje Lukić. I due si rendono protagonisti, nel corso di quella terribile estate del 1992, di una serie di episodi disumani, tra cui l’uccisione a sangue freddo di sette musulmani-bosniaci, i cui cadaveri vengono gettati nella Drina, e della combustione di cinquantacinque persone – tra cui una neonata di tre giorni di vita – in una cantina di Pionirska ulica, nella quale i Lukić lanciano ordigni incendiari alimentando poi le fiamme per ore con la benzina. L’orrore continua con toni di questo genere per tutta l’estate, finché la pulizia etnica ai danni dei musulmani-bosniaci – che costituivano il 63 per cento della popolazione locale – viene portata a termine con operazioni di rastrellamento, deportazioni e omicidi di massa di centinaia di civili all’interno di case private. Circa tremila persone vengono uccise e fatte scomparire. Il 21 febbraio 2006 Milan Lukić viene messo a disposizione del Tpi, dopo essere stato catturato in Argentina, nell’estate del 2005. Lukić viene condannato in via definitiva all’ergastolo nel dicembre del 2012.
Una testimonianza di come, fino ai primi anni Duemila Lukić girasse indisturbato sul territorio di Višegrad è raccolta dal giornalista Luca Leone in Višegrad. L’odio, la morte, l’oblio nella sua intervista a Bakira Hašečić, una vera Lady Wiesenthal del conflitto in Bosnia-Erzegovina.

“Abbiamo piantato un’altra volta le tende qui a Kosovo Polje e una sera del 2001 vediamo arrivare una grossa automobile nera. Un poliziotto della Iptf1 esce dall’auto ed entra nella mia tenda. Nel farlo, urta con la testa e gli cade il cappello in terra. Esce per recuperare il cap­pello e nel frattempo io riesco ad appuntarmi il numero della targa della macchina. L’uomo torna all’auto e alla radio, parlando con qualcuno, dice: ‘Chiederò quanti sono’. Allora tutti abbiamo capito di non avere a che fare con un poliziotto dell’Iptf ma con Milan Lukić in persona. Si avvicina al portabagagli della macchina, lo apre… era vuoto. Abbiamo pensato che lui e quello seduto in auto, che lo aveva accompagnato, fos­sero venuti a rubarci i viveri, che ci erano stato consegnati proprio quel giorno. Da dentro la macchina la voce del secondo uomo gridava: “Pa­drone! Padrone!’, l’urlo che proprio Lukić lanciava quando entrava nelle case delle sue vittime. Allora siamo tutti scappati da dentro le tende e ci siamo affrettati verso il torrente… – ora ride di gusto – …ormai era una prassi consolidata, perché quando durante la guerra i četnici entravano nelle nostre case noi scappavamo sempre tutti verso il torrente…”.