È guerra, sono guerre: devastanti, distruttrici di relazioni, di corpi, della natura e dell’ambiente, di patrimoni culturali dell’umanità. E la chiamavano pace.
Davide,
nel suo passare attraverso o dentro le situazioni di guerra, riflette sulla
necessità di tenere insieme, nella cooperazione internazionale o nell’agire dei
singoli e dei movimenti e delle associazioni pacifiste – sebbene io preferisca
chiamarli “movimenti per la nonviolenza” – le risposte sia all’emergenza e ai
bisogni delle comunità sradicate e ferite, sia quelle della ricerca per la
costruzione della pace. Anche lui consapevole che non vi è pace senza giustizia
e che la povertà, come ci dice Nelson Mandela, “non è un destino” ma il
risultato delle politiche di un sistema che invece di porsi la questione per
chi, come, cosa produrre, pensa a fare più profitto e a sfruttare uomini, donne
e natura.
Anche se
la sua narrazione è racconto di un’esperienza soggettiva, dalla presa di
coscienza alla pratica della nonviolenza, e non una dissertazione accademica,
Davide nomina le contraddizioni degli interventi chiamati “umanitari” e che
invece sono in realtà dominio geopolitico, conquiste di risorse e mercati o di
terra colonizzata e rubata – ai Palestinesi, nel caso di Israele.
L’autore
evidenzia come sia indispensabile separare gli interventi di costruzione della
pace (peacebuilding) dalla commistione con i militari e al contempo racconta i
palesi fallimenti e le ipocrisie degli aiuti umanitari, che invece di agire sui
conflitti per creare condizioni di sviluppo e di economia sociale diventano
portatori di nuovi conflitti e disuguaglianze.
Attraverso
i suoi passaggi nelle varie organizzazioni, dall’Agesci agli Obiettori di
coscienza, dall’Associazione per la Pace, alla formazione e l’insegnamento, ai
viaggi nei luoghi delle guerre o dell’occupazione militare, nel conflitto e nel
post conflitto (ma quanto lavoro andrebbe fatto per
spiegare cosa sono i conflitti) ci lascia luoghi, persone, riflessioni e ingiustizie
subite ma anche esempi di umanità straordinaria.
La mia
mente si è riempita di ricordi e di collegamenti; Rada, molto prima del “contro
viaggio” di cui ci dice Davide, l’abbiamo incontrata a Belgrado quando, come
donne Assopace e Donne in Nero nei periodi più bui della guerra, andavamo in
Croazia, Slovenia, Serbia, Bosnia, Montenegro per costruire, insieme alle
donne, relazioni e solidarietà. Fin dal 1988 siamo andate in Palestina e
Israele per incontrare donne israeliane e palestinesi; da lì vengono le Donne
in Nero in Italia; poi nella Marcia a Sarajevo, organizzata dai diversi
movimenti italiani per la pace, abbiamo detto alle donne della ormai ex
Jugoslavia del nostro fare. Da quell’incontro ebbero inizio le Donne in Nero di
Belgrado. Nel nostro agire, lo scambio e la relazione facevano parte della
nostra politica: cacciare la guerra fuori dalla storia e costruire una politica
internazionale che partisse da un diplomazia dal basso, dove la relazione e la
mediazione fossero capaci di interrompere il ciclo della violenza e dei
nazionalismi.
E quando
Davide racconta del Kurdistan e di Leyla Zana, non posso non ricordare il
nostro essere con le Madri per la Pace a Dyarbakir, la presenza in piazza a
Roma con le migliaia di curdi venuti per sostenere Abdullah Öcalan, o il mio
essere presente, ormai non più portavoce dell’Associazione per la Pace ma
parlamentare europea, alle diverse udienze del processo contro Leyla Zana e gli
altri parlamentari curdi. Al figlio di Leyla, Ronay, che ho tenuto con me per
diversi mesi per cercare di farlo uscire dalla depressione e dagli incubi di
avere un padre e una madre incarcerati, e lui costretto all’esilio. Ma anche
Colombia, Algeria, Iraq e soprattutto in Palestina e Israele, dove
l’Associazione per la Pace fin dalla sua fondazione, nel primo congresso di
Bari, ha ospitato una donna palestinese e una israeliana, e abbiamo poi
continuato con le parti che riconoscono l’asimmetria della situazione: da una
parte un Paese che occupa militarmente un altro, dall’altra un popolo impegnato
a lottare per una pace giusta. Durante l’assedio e il coprifuoco in tutte le
città della Cisgiordania e di Gaza, all’inizio della seconda Intifadah, nel
2002, insieme a francesi, belgi, israeliani e palestinesi siamo andati in
Palestina con interventi civili di pace per proteggere la popolazione, per
rimuovere con le nostre mani i blocchi di cemento o terra messi all’entrata dei
villaggi o nelle strade di collegamento tra un villaggio e l’altro, che
impedivano ai palestinesi ogni libertà di movimento.
Lì
abbiano incontrato quelli che non chiamo eroi, ma angeli, uomini e donne,
soprattutto giovani, che andavano a soccorrere i feriti o a portare da mangiare
agli anziani che non potevano uscire di casa per il coprifuoco. E angeli le
ragazze e i ragazzi di Operazione Colomba, che proteggono i bambini
palestinesi, dall’aggressione fisica dei coloni israeliani che vogliono impedire
loro di andare a scuola.
Leggere
le sue esperienze, e il regalo che Davide ci fa nel condividerle, mi dà un
grande impulso per continuare nel nostro cammino. Partendo da sé,
dall’assunzione di responsabilità individuale, che non deve mai essere delegata
a nessuno, ma anche dall’organizzazione collettiva della pratica e della
cultura della nonviolenza contro la pratica e la cultura della militarizzazione
delle nostre società e anche delle nostre menti.
Quando
chiesi a Davide di venire con noi e lavorare nell’Assopace, lo feci per la sua
attività nei movimenti della nonviolenza attiva, per portare dentro Assopace
competenza e differenze.
Grazie
Davide, so che continueremo il nostro andare e tornare per tenere aperta una
striscia di futuro dove non siano ingiustizia e guerre a segnare il passo, ma
il nostro respiro per la libertà e la giustizia. Con il coraggio della
nonviolenza. Ne vale la pena!
Il testo
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edizioni 2012).
Per informazioni, Infinito
edizioni: 06/93162414
Maria Cecilia Castagna: 320/3524918