A
un anno dall’inizio delle Primavere arabe, il grande sommovimento che sta
rivolgendo il passato e preparando il futuro di quel mondo è solo nelle fasi
iniziali. Anche dove il movimento ha avuto “successo”, dove un cambiamento
evidente c’è già stato (Tunisia, Egitto, Libia,
in
misura minore Yemen), il cammino da percorrere è ancora lunghissimo. Né
democrazia né stabilità sono alle viste, e i pericoli possono ancora essere
grandissimi rispetto alla
gioia di aver visto cadere dittature violente, opprimenti e cleptocratiche.
In
altri Paesi, che sino a oggi sembrano aver congelato le spinte al cambiamento o
addirittura sembrano immuni a un’evoluzione accelerata dai movimenti di popolo
(vedi Arabia Saudita o Algeria), nessuno è ancora in grado di poter dire cosa
accadrà nei prossimi mesi.
Gli
analisti, gli studiosi nelle scorse settimane hanno analizzato se stessi, per
capire come fosse possibile che nessuno fra loro – con concretezza – avesse
previsto un simile rivolgimento in Paesi piccoli o grandi come Tunisia, Egitto
e Libia. Gli elementi per una possibile analisi – per esempio gli indicatori di
base dello sviluppo e delle condizioni politiche e sociologiche nel mondo arabo
– c’erano tutti. Se qualcuno avesse davvero studiato in sequenza i poderosi
rapporti dell’Undp (Arab human developement
report) avrebbe visto tutti in
fila i componenti per la creazione di quella miscela esplosiva che ha fatto
esplodere in maniera differente i regimi di Muhammar Gheddafi, di Hosni Mubarak
o di Ben Ali. Detto questo, era difficile fare una previsione, perché ancora
oggi nessuno riesce a comprendere come questi fattori si siano trasformati e combinati
fra di loro.
Qualcuno
ha scritto che c’è una ricetta perché le rivoluzioni riescano: 1) il governo,
l’autocrate devono apparire irrimediabilmente inetti e tirannici, tanto da
essere percepiti come una minaccia per il futuro del Paese; 2) le classi dirigenti,
anche gli apparati di sicurezza e di difesa, devono realizzare questo pericolo,
e non avere più intenzione di difendere il vecchio regime; 3) la grande
maggioranza della popolazione, che in maniera trasversale, secondo le etnie, i gruppi
religiosi, quelli politici o professionali, si deve mobilitare; 4) le potenze
internazionali, gli alleati dell’autocrate di turno, devono rifiutarsi di
continuare a sostenerlo, non
devono (politicamente o militarmente) permettergli di usare la forza in maniera
massiccia.
A
questi potremmo aggiungere un fattore di evoluzione storica, politica del Paese
o dei Paesi in cui le rivoluzioni hanno successo. Per il mondo arabo questo è
il vero fattore unificante: quei popoli erano fermi alla condizione di sudditi,
in un mondo che ovunque consolida democrazie
con
gradi di cittadinanza più o meno compiuti. Gli arabi rimanevano sudditi, mentre
internet portava in casa i volti dei cittadini. I leader
autocrati arabi, i re, generali o dittatori che fossero o
che sono, non sono cambiati da anni. Sono rimasti autocrati. Forse, come dicono
a Tripoli, “oggi da un Gheddafi siamo passati a cento piccoli Gheddafi che provano
a diventare grandi”. Ma questa sarà l’inevitabile, dolorosa transizione che
quei Paesi hanno avviato, la cui destinazione
è ancora lontana. Nei prossimi mesi dovremo seguire il fenomeno più
interessante della fase che seguirà l’inizio delle Rivoluzioni. Quando l’unico
potere possibilmente organizzato, quello dell’Islam, proverà a cimentarsi con
la sfida del governo e poi della gestione delle società arabe. Siamo all’inizio
di un percorso affascinante, delicato, pericoloso. Non possiamo trasferirci su
un altro Paese per rimanere lontano dalle fiamme e dalle scintille che il calderone
arabo continuerà a sprigionare.
Il testo
della postfazione di Vincenzo Nigro è disponibile sul sito della Infinito
edizioni (www.infinitoedizioni.it)
e può essere ripreso liberamente citando la fonte (©Infinito
edizioni 2012).
Per informazioni, Infinito
edizioni: 06/93162414
Maria Cecilia Castagna: 320/3524918