Tra
coloro che seguono o fanno la politica internazionale, la generazione degli
europei occidentali che è nata prima o durante la Seconda guerra mondiale ha
perseguito prioritariamente un obiettivo: mai più guerre. Come ricorda spesso
nei suoi articoli Barbara Spinelli, questa è stata, prima ancora della produzione
di ricchezza, la finalità prima della costruzione
dell’Europa comunitaria. In questo senso, l’operato di quella generazione è
stato coronato da successo. I governi europei occidentali oggi dissentono
spesso tra di loro, anche aspramente, ma un’aggressione armata è esclusa
dall’orizzonte del possibile. Eppure, ancora agli inizi del nostro nuovo
secolo, ricordo a Pristina, in Kosovo, l’amministratore civile Onu del
territorio, il francese Bernard Kouchner, esaltare la sua collaborazione con il
comandante delle forze Nato in Kosovo, che all’epoca era un tedesco, come un
fatto impensabile per la generazione dei loro padri.
Ricordo
questo aneddoto perché la frase di Kouchner mi dette subitaneamente la misura
di come le cose fossero cambiate per la generazione successiva, quella nata
dopo la Seconda guerra mondiale, cioè la mia. Cresciuti negli anni della Guerra
fredda e della minaccia dell’olocausto nucleare, per noi la cooperazione
franco-tedesca è stato un fatto scontato, banale. A
noi i due conflitti mondiali apparivano e tuttora appaiono come il ricordo di
un’epoca che non si presenterà mai più, alla stregua dei secoli passati della
storia europea, delle guerre dei trent’anni e dei cent’anni. Storia, appunto.
La
questione che ha appassionato la mia generazione – però senza successo – è
stata tutt’altra. È stata se gli Stati abbiano o no il diritto di varcare le
frontiere di altri Stati per imporre con la forza la pace, oppure il rispetto
dei diritti umani. È stata se le frontiere, questo limite simbolico, sacralizzato
(i nostri nonni morirono per i “sacri confini della patria”), debbano essere
anche il limite della giustizia, della vita, dell’umanità. È una questione che
non abbiamo saputo risolvere. Abbiamo esitato tra il ripudio del ricorso alla
forza, qualunque ne fosse la causa, il contesto, lo scopo, e lo sdegno per la
passività dell’Occidente davanti alle stragi e ai genocidi. Negli anni Sessanta
l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite, lo svedese Dag Hammarskjöld –
il più grande che l’Onu abbia mai avuto – perseguì l’ideale di una forza armata
sovranazionale che avesse il compito di imporre al mondo la pace: fallì,
pagando con la vita. Quanto a noi, non avremmo voluto la guerra in Iraq (2003),
ma avremmo voluto che fosse fermato il genocidio ruandese (1994). Siamo rimasti
confusi davanti all’intervento americano in Somalia (1992), saldatosi con un
disastro. Ci siamo spaccati sulla Bosnia (1995) e sul Kosovo (1999). Siamo stati
pacifisti, perché la pace è un valore assoluto, ma anche bellicisti, per difendere
i valori calpestati.
In questa
materia è stata contraddittoria la dottrina, che ha oscillato tra il cosiddetto
“diritto d’ingerenza umanitaria” e il neoisolazionismo. E ancor più
contraddittorie sono state le opinioni pubbliche, fino a volere all’apparenza
una cosa e il suo contrario, come durante la guerra civile libica
del 2011, quando hanno chiesto ai loro governi che si facesse qualcosa contro
la feroce repressione gheddafiana ma si sono rivoltate contro l’intervento
Nato. Mentre scriviamo queste note gli Stati Uniti di Barack Obama minacciano
un intervento unilaterale in Sudan per porre fine alle stragi compiute dal
governo di Khartoum contro la popolazione del Sud Kordofan e del Blue Nile. Un
classico caso di ingerenza umanitaria, che si pone nella sostanziale
indifferenza del resto della cosiddetta comunità internazionale.
La
questione rimane dunque aperta e da risolvere per la generazione successiva,
oggi adulta. Non è bastata la nostra per stabilire un criterio, un principio
universalmente condiviso. La ricerca continua. Resta viva, praticata, operante,
la volontà dei costruttori di pace. È da lì che bisogna eternamente ripartire.
Il testo
della prefazione di Pietro Veronese è disponibile sul sito della Infinito
edizioni (www.infinitoedizioni.it)
e può essere ripreso liberamente citando la fonte (©Infinito
edizioni 2012).
Per informazioni, Infinito
edizioni: 06/93162414
Maria Cecilia Castagna: 320/3524918