Sono nata e cresciuta in Svezia, pochi chilometri fuori Stoccolma,
che vuol dire già praticamente in campagna. Mia madre lavorava e lasciava la
casa ogni giorno alle sette del mattino per non rimanere intrappolata nel
traffico – sì sì, anche in Svezia c’è il problema del traffico, forse ancora di
più negli anni passati, quando non c’era l’attuale congestion charge,
fortemente voluta dai cittadini – e io mi arrangiavo da sola. Andavo a scuola a
piedi o in bici e di pomeriggio andavo dritto dai nonni per la merenda, pan
dolce alla cannella e compiti.
La natura immensa, patrimonio
di tutti, i mezzi pubblici precisi e in orario, puliti e sicuri, la scuola dove
l’insegnante era autoritaria ma disponibile e comprensiva, l’ora di religione
in cui si studiavano tutte le religioni, la mensa con gli spaghetti scotti, il
tempo libero davvero libero, il politico dimessosi solo perché non aveva pagato
il canone della tv, le giornate buie e quelle infinite con il sole a
mezzanotte, le candele in testa a Santa Lucia e i fiori in testa nella notte di
mezza estate, il lavoro estivo a due euro l’ora, i castelli di neve… Tutto
questo mi ha formata, ma avevo sempre un desiderio che mi accompagnava: uscire
dal Paese per scoprire il mondo, imparare l’inglese, comunicare, vedere,
toccare con mano la realtà oltre i miei confini. Mi sentivo sicura, protetta
dal Paese, dallo Stato, vedevo il futuro come una solida certezza.continua...