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La Svezia dell’accoglienza, patria dello stato sociale, terra forte e in continuo cambiamento nella prefazione scritta da Filippa Lagerback al libro “Diversamente Svezia” di Marco Buemi

Sono nata e cresciuta in Svezia, pochi chilometri fuori Stoccolma, che vuol dire già pratica­mente in campagna. Mia madre lavorava e lasciava la casa ogni giorno alle sette del mattino per non rimanere intrappolata nel traffico – sì sì, anche in Svezia c’è il problema del traffico, forse ancora di più negli anni passati, quando non c’era l’attuale congestion charge, fortemente voluta dai cittadini – e io mi arrangiavo da sola. Andavo a scuola a piedi o in bici e di pomeriggio andavo dritto dai nonni per la merenda, pan dolce alla cannella e compiti.
La natura immensa, patrimonio di tutti, i mezzi pubblici precisi e in orario, puliti e sicuri, la scuola dove l’insegnante era autoritaria ma disponibile e comprensiva, l’ora di religione in cui si studiavano tutte le religioni, la mensa con gli spaghetti scotti, il tempo libero davvero libero, il politico dimessosi solo perché non aveva pagato il canone della tv, le giornate buie e quelle infinite con il sole a mezzanotte, le candele in testa a Santa Lucia e i fiori in testa nella notte di mezza estate, il lavoro estivo a due euro l’ora, i castelli di neve… Tutto questo mi ha formata, ma avevo sempre un desiderio che mi accompagnava: uscire dal Paese per scoprire il mondo, imparare l’inglese, comunicare, vedere, toccare con mano la realtà oltre i miei confini. Mi sen­tivo sicura, protetta dal Paese, dallo Stato, vedevo il futuro come una solida certezza.
Finito il liceo sono partita per un anno sabbatico prima dell’università, ma non sono mai più tornata in patria. Dopo dieci anni in giro per il mondo ho trovato l’amore e il lavoro in Italia, dove vivo attualmente con il mio compagno e nostra figlia, Stella, otto anni. Quando è nata volevo farle percepire da subito le sue radici scandinave e dopo un solo mese di vita le avevo già procurato il passaporto svedese. Con lei ho sempre parlato nella mia lingua madre. Andiamo spesso a trovare i suoi nonni su al nord, dove le insegno il rispetto per la natura, il senso civico e il gusto di viaggiare per scoprire il pianeta, proprio come ho fatto io. Vorrei che un giorno si sentisse non solo italo-svedese, ma cittadina del mondo, un piccolo pezzo del grande puzzle, che capisca di far parte di un disegno più ampio, non costretta in una piccola realtà locale


Con lei parlo di pari opportunità, del ruolo della donna e dell’uomo nella società, le spiego che deve prendersi le proprie responsabilità, aiutare in casa e diventare autonoma. I miei fratelli facevano il bucato da soli a dieci anni, andando in giro con le t-shirt rosa prima che imparas­sero a dividere i colori! Ognuno doveva aiutare nelle faccende domestiche. Se dicevi: “Non lo so fare!”, la risposta era: “È l’occasione per imparare!”. E se dicevi: “Ma io lo so già fare!”, la risposta era: “Bene, così ci metti meno tempo!”.
La Svezia è in continua evoluzione, segue il mondo che cambia. Nei tempi di crisi, i soldi vengono investiti nel rinnovo dell’istruzione e nello sviluppo della ricerca. La scuola che co­noscevo io non esiste più. Il programma del liceo si è aggiornato alle più moderne esigenze educative globali. In questo progetto interculturale l’integrazione degli immigrati diventa ine­vitabilmente una delle questioni più delicate e controverse del mio Paese. Attualmente c’è un acceso dibattito, in particolare nella città di Malmö, che tra l’altro partecipa alla campagna Unesco “Città contro il razzismo”. Mio padre, in qualità di psicologo-mediatore, è coinvolto nella disputa. Il suo ruolo è quello di favorire un dialogo tra i cittadini appartenenti a differenti etnie e religioni. Ci deve essere spazio e rispetto per tutti e si stanno compiendo enormi sforzi per riuscire a inserire nuove culture, tenendo conto delle esigenze, delle problematiche e delle incompatibilità delle differenti comunità. L’obiettivo è rappresentato da uno slogan semplice ed efficace: “Il mondo nella città, l’equilibrio in una società multiculturale”. La Svezia, con una popolazione sempre più vecchia, ha bisogno degli immigrati perché rappresentano una risorsa nel mercato del lavoro.
Ecco una frase di questo libro che mi ha colpito molto: “Ciò che ha contraddistinto la Sve­zia rispetto ad altri Paesi è che le riforme sociali, una volta varate, sono state accettate da tutti, anche da coloro che si erano opposti fino a quel momento alla loro introduzione”. Per me la politica è sempre stata concreta, costruttiva, efficiente. Non un cane che si morde la coda. La cosa più importante è non perdere di vista il futuro, per il bene di tutti, non solo per il bene del singolo individuo. Un’utopia? Io non credo. Certamente nessuno è perfetto, ma finché si riconoscono le proprie debolezze, c’è sempre spazio per i miglioramenti.
Sono orgogliosa di essere svedese, ma innamorata del mio Paese d’adozione, l’Italia.
Mi sento... diversamente Europea.