L’assemblea
delle Nazioni Unite ha stabilito che il 18 luglio di ogni anno venga celebrato
il “Mandela Day” per ricordare il fondamentale contributo dato alla lotta antiapartheid e alla realizzazione degli
ideali di libertà dal leader sudafricano, già premio Nobel per la pace nel
1993. Mandela è stato il primo Presidente nero del Sudafrica, ha guidato la
lotta contro il regime segregazionista e gettato le fondamenta per un Sudafrica
libero, democratico e multirazziale.
Ogni
anno, in questa giornata, le Nazioni Unite invitano tutti a dedicare 67 minuti
agli altri, ciò che fece Mandela per 67 anni della sua vita, a servizio dell’umanità.
Festeggiamo
il “Mandela Day” con il libro SUDAFRICA IN BIANCO E
NERO di Marco Buemi (prefazione di Nicola Zingaretti – introduzione di
padre Giulio Albanese).
Lo sport ha da sempre scandito, come
poche altre cose, gli eventi, le divisioni e le riconciliazioni della nostra
storia. Non fa certo eccezione il Sudafrica, come ricorda Marco Buemi, dove la
maglia verde degli Springboks, la
nazionale di rugby, era considerata uno dei più odiosi simboli del regime di
divisione imposto dall’apartheid,
almeno fino a quando Nelson Mandela non ha saputo farne uno strumento di unità
nazionale.
A Robben Island, dove lo sport fu
incluso tra le prime timide concessioni ai detenuti, la palla ovale venne
imposta a rotazione settimanale col calcio.
Fu Mandela, padre del nuovo
Sudafrica, con il suo solito coraggio e la sua lungimiranza, a decidere che
proprio il rugby poteva essere l’emblema della riconciliazione nazionale. Fu
lui a volere che nel 1995 il Sudafrica ospitasse i mondiali di rugby, e fu
sempre lui a vincere una delle più grandi sfide diplomatiche interne: fare in
modo che quell’anno i neri tifassero per la prima volta per la squadra dei
bianchi.
La fine dell’apartheid passa per le mani
di “Mandiba” ma anche per le gambe di Chester Williams, il primo giocatore coloured a vestire – per
ragioni molto più politiche che sportive – il verde dei bokke e che segnò le
quattro mete alla Francia che portarono gli Springboks in finale contro la
squadra più forte del mondo, la Nuova Zelanda. La fine dell’apartheid,
per lo meno di quello sportivo, passa anche per il cuore di Francois Pineaar,
il più che mai afrikaneer capitano della
compagine sudafricana che, dopo aver conosciuto Mandela, trasmise ai suoi
compagni di squadra la convinzione che si stesse giocando più di un mondiale.
Il giorno della finale, Mandela
stupì tutti indossando la maglia che era stata il simbolo dell’apartheid col
numero sei di Pineaar, in uno stadio dove il pubblico, per la quasi totalità
bianco, gridava il nome di Mandela e intonava Shosholoza (inno morale dei
minatori neri). Il Sudafrica libero e democratico vinse il mondiale facendo
esplodere la gioia negli stadi e nelle township.
Quando Mandela consegnò nelle mani di Pineaar la Webb Ellis Cup, entrambi
indossavano la maglia verde degli Springboks con il numero sei.