Nel
giorno dell’anniversario della caduta di Srebrenica le parole di Luca Leone, in
Srebrenica. La giustizia negata, ci
presentano i tre ricordi
di Hatiđa
Mehmedović
Hatiđa
Mehmedović, una donna di cui ho raccontato in un intero capitolo del mio Srebrenica.
I giorni della vergogna, uscito per il decennale del genocidio, e a cui
hanno portato via tutto. Le sono rimaste tre cose che le ricordano d’essere
stata sposata, d’aver avuto una famiglia, una vita normale. Un tempo.
La
prima cosa: una vecchissima foto sgranata che ha ritrovato per caso da lontani
parenti e di cui ha fatto rifare il negativo per poterla stampare in formato
gigante. Perché gli sterminatori ultranazionalisti serbo-bosniaci e serbi di
Srebrenica e i delatori che li hanno fiancheggiati sul posto hanno prestato
molta attenzione a cancellare tutto ciò che potesse raccontare della secolare
presenza musulmana bosniaca in città.
La
seconda: l’abete piantato di fianco alla casa dal figlio maggiore, ammazzato
dai criminali alle dipendenze di Mladić.
Infine,
il nome tracciato con un legnetto dal figlio minore quand’era bambino sul
cemento del marciapiede intorno a casa, steso dal marito prima che la guerra
scoppiasse. Ammazzati anche loro due, padre e figlio più piccolo. Di uno di
loro tre sono stati ritrovati i resti. Degli altri ogni tanto esce fuori
qualcosa dal terreno della Republika Srpska, trasformato in quella zona in
un’immensa fossa comune, oppure dai sacchi bianchi del centro commemorativo di
Tuzla, il luogo in cui porterei in visita d’istruzione tutti i potenti della
Terra e i loro leccapiedi di certa stampa e di certa impresa, lasciandoli
qualche decina di minuti chiusi in un frigorifero di duecentocinquanta metri
quadrati pieno di sacchi di esseri umani fatti a pezzi e riesumati da fosse
comuni secondarie e terziarie.