L’11 luglio 1995, Srebrenica: oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono
catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno
alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani,
da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli
ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi. Ripercorriamo quei giorni con
le parole di alcuni nostri autori che hanno affrontato questo argomento.
Il ricordo
di oggi ci viene dal libro di Luca Leone e Riccardo Noury dal titolo Srebrenica. La giustizia
negata e descrive la visita di Bill Clinton a Potočari
Bill
Clinton giunse a Srebrenica il 20 settembre 2003. Prima non c’era mai stato. Eppure
era lui il presidente degli Stati Uniti d’America ai tempi del genocidio.
Clinton entrò in carica per il suo primo mandato nel 1993 e chiuse il suo
secondo termine nel 2001. È a lui che si deve la fine – seppur tardiva e
sbagliata, nei termini e negli accordi – del conflitto bosniaco del 1992-1995.
L’ex presidente della superpotenza mondiale per antonomasia giunse nel luogo
del martirio di oltre diecimila civili inermi quasi sospeso in una nuvola di
telecamere, flash, taccuini, domande a cui in buona parte non fu data
risposta, aspettative. Impeccabile in giacca e cravatta. Clinton tenne il
discorso d’inaugurazione del cimitero memoriale di Potočari. Davanti a migliaia
di vedove, di figlie, di sopravvissute al genocidio di Srebrenica, perpetrato appena
otto anni prima, si commosse pronunciando frasi pesanti come macigni proprio
perché cariche di promesse e di princìpi mai e poi mai attuati. Prima di
leggere il suo discorso aveva incontrato in privato una delegazione di donne di
Srebrenica. Aveva fatto promesse. Aveva chiesto scusa. S’era commosso. Era
stato attaccato. Era stato persino consolato. Lui. Davanti alle telecamere di
tutto il globo, in un memoriale in cui erano state sepolte in luglio le prime
centinaia di piccole bare verdi piene di ossa, solo d’ossa, Clinton disse cose di questo
tenore:
“We remember this terrible crime because we
dare not forget, because we must pay tribute to the innocent lives, many of
them children, snuffed out in what must be called genocidal madness…”.
“I
hope the very mention of the name Srebrenica will remind every child in the
world that pride in our own religious and ethnic heritage does not require or
permit us to dehumanize or kill those who are different. I hope and pray that
Srebrenica will be for all the world a sober reminder of our common humanity”.
“May
God bless the men and boys of Srebrenica and this sacred land their remains
grace”.
Lacrime.
Promesse. Lui che si allontana con un’immensa scorta.
Bugie.
L’ennesimo “che non accada mai più” pronunciato a vanvera da un potente. Come
quelli detti dopo la Shoah, dopo Hiroshima e Nagasaki, dopo la guerra di Corea,
dopo il Vietnam… e così via, fino al Rwanda, 1994, e Srebrenica, 1995, e poi
fino ai nostri giorni. “Mai più” falsi e bugiardi.