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domenica 26 luglio 2015

#MeseDellaMemoria #Srebrenica: i pensieri della quarta settimana

Raccogliamo i pensieri, i ricordi e le suggestioni dedicati al ventennale del genocidio di Srebrenica che abbiamo pubblicato durante questa settimana.

Un capitolo ancora aperto

Srebrenica venti anni dopo. Che significato ha, in questo specifico caso e momento, parlare di memoria? Sotto certi aspetti, sembra di scorgere alcune analogie con le stragi di casa nostra, ad esempio Piazza Fontana, oppure Ustica, la stazione di Bologna o altre ancora, “maggiori o minori”, di cui non c’è mai stato un vero esito, nel senso dell’accertamento delle responsabilità - tutte le responsabilità - e dell’esatta ricostruzione storica e politica. E quando accade questo, resta sul fondo una “cattiva coscienza”, risulta difficile ricomporre una vera memoria, i ricordi dello strazio che hanno i familiari delle vittime rimangono come frammentati, lutti sospesi o emarginati. In questi ultimi giorni ci sono stati – su Srebrenica - alcuni episodi che non è semplice decifrare: ad esempio, l’arresto di Naser Oric, qualche voce su una possibile sospensione della commemorazione per il ventennale, poi la presa di posizione dell’Onu sul riconoscimento della definizione di genocidio, la conseguente reazione del governo di Belgrado e l’appoggio di Mosca che ha bloccato il tutto. Insomma, sono la dimostrazione, o la conferma, che Srebrenica non è solo un fatto locale, tremendo e da commemorare o da trattare come un fatto “giudiziario” che deve “limitarsi” al pieno accertamento delle responsabilità. Ci pare invece che Srebrenica abbia una valenza più generale, che riguarda ancora l’intera regione balcanica, e che a questo livello sia tuttora motivo di divisione, o quantomeno di “incomprensioni”. Vi si mescolano “altri piani” che travalicano le vicende delle singole persone coinvolte, il cui dolore dovrebbe essere non solo rispettato ma anche meglio compreso, non per esibirlo in funzione di qualcosa ma per partire da lì, per una rielaborazione e una riconciliazione complessa da costruire. È difficile in poche righe affrontare un tema così delicato e che, ci rendiamo conto di non conoscere in un modo ancora adeguato. Personalmente, per noi che allora siamo stati soltanto spettatori, si avverte il bisogno di tornare ad approfondire, conoscere meglio, tentare di comprenderne i nodi, i “meccanismi” che potrebbero ripetersi ancora, anche in luoghi diversi. E anche, prestare più attenzione ai tentativi di ricostruzione e ripresa che pure sono stati fatti in questi anni, importanti ma spesso, forse, lasciati un po’ isolati. Insomma, Srebrenica ci appare come un capitolo ancora molto aperto.


Tullio Bugari e Giacomo Scattolini


Rabbia, indignazione, giustizia e testimonianza

A vent’anni dal genocidio di Srebrenica, mi spiace dirlo, prevale la stanchezza. Sono sfinito da tutto il dolore che ho conosciuto in questo lasso di tempo lunghissimo eppure anche molto breve. Le immagini si susseguono nella mia mente in ordine sparso. Non sono soltanto immagini tristi, certo: ci sono i volti sorridenti di tanti amici; però, quello che manca è un volto, uno solo, veramente sereno, senza più rimpianti, fantasmi, tormenti a segnarne i contorni.

Non andrò a Srebrenica per l’11 luglio, non ho mai creduto negli anniversari. La Bosnia per me è una seconda casa, anzi forse col tempo è diventata la prima: è in Italia che sono in vacanza. Ed è proprio per questo che eviterò l’11 luglio: so, conosco, cerco per quanto possibile di testimoniare. Sempre, ogni 11 luglio e ogni altro giorno dell’anno.

Ma dico tutta la verità: la stanchezza a volte mi sopravanza e mi gioca brutti scherzi. Come arrabbiarmi quando qualcuno in un dibattito, per l’ennesima volta, sbaglia a pronunciare Srebrenica. Come piangere dopo aver rivisto Dule, il titolare del ristorante dove da anni mangiavo la biftek, nel docu-film Souvenir Srebrenica: Dule che era ritornato a Srebrenica dopo la guerra per aprire il suo locale, e che era in cucina anche quando un infarto se lo è portato via. Come pensare di chiudere il libro delle fosse comuni, degli stupri, degli orfani, del disagio e della miseria una volta per tutte: chiudere il libro, non pensarci più, far finta di niente.

Ma non chiuderò nessun libro, continuerò a sentirmi stanco e impotente ma non smetterò di fare la mia parte. Non darò questa soddisfazione ai bastardi di Sarajevo magistralmente raccontati da Luca Leone. Un solo senso mi sento di dare a questo ventennale: che sia un ventennale di rabbia e indignazione. Non di violenza, non di vendetta, ma intriso dalla sete di giustizia: racconteremo, testimonieremo, non dimenticheremo. Mai. Il rischio che non serva a nulla, alla luce di questi vent’anni, è altissimo, ma non importa: continueremo a farlo ugualmente.

Matteo Pagliani


L’incontro con le madri: memoria nella giustizia
Durante la gita-pellegrinaggio attraverso la penisola balcanica, dell’Associazione per l’accoglienza dei migranti “San Martino de Porres” di Pistoia, incontriamo le madri di Srebrenica e di Zepa nel pomeriggio del 21 agosto 2008, una data che rimarrà impressa nella mente di molti dei presenti. L’incontro avviene in un piccolo appartamento della periferia di Sarajevo. Appena entrati, le foto con i volti degli scomparsi, con le bare, con il volto addolorato di Clinton, ci hanno calato immediatamente in una tragedia della storia rimossa daimedia. Il genocidio, realizzato nel luglio 1995 nell’impotenza, ma anche nell’indifferenza e nel silenzio dell’Europa, si materializza ai nostri occhi in un’evidenza lampante che squarcia le coscienze: non possiamo sottrarci alla responsabilità di questa sconfitta dell’umanità: la connessione tra sfera e spazio globale si realizza in modo lacerante. Le parole delle madri, in particolare della presidente Munira Subasic – una donna apparentemente semplice, ma ferma nella sua fiera argomentazione – sono come un grido che chiede, esige giustizia diun genocidio che il mondo non ha voluto vedere. Munira parla, racconta, ragiona, discute, accusa rapida e precisa nella sua lingua bosniaca per noi incomprensibile, ma tradotta, talvolta tra le lacrime, dalla giovane e dolcissima Ana, che più volte è sopraffatta dalla commozione. Munira parla con la durezza e la precisione di un processo verbale contro Karadzic (da pochi giorni scoperto e arrestato), Mladic (ancora nascosto dal governo serbo), le responsabilità dell’Europa e dell’Onu, contro i silenzi del papa; la sua sicurezza è assoluta, come se avesse raggiunto un punto fermo che le asciuga le lacrime e le dà serenità, la Giustizia. Erompe con un grido: “Perché siete qui?” e ci fa improvvisamente protagonisti inconsapevoli in quella stanza, dove sono presenti il dolore e l’orrore del XX secolo. Noi, dopo essere rimasti a lungo in silenzio, possiamo solo ringraziare per la loro testimonianza: lo esprimiamo con le mie sofferte parole: “L’incontro che vi abbiamo chiesto vuole riaffermare che la dignità umana resiste nella memoria, anche e proprio nei luoghi, di cui sono stati vittime i vostri familiari. Siamo consapevoli che ogni incontro, per voi evoca dolore, ma essere qui rappresenta per noi una scelta irrinunciabile di solidarietà nella memoria e nella giustizia. Il valore della vostra testimonianza è infinito proprio perché diventa parte della memoria collettiva grazie al messaggio che quanto è avvenuto qui, non accada più in nessuna parte del mondo. I vostri cari non toneranno a vivere, ma attraverso la giustizia i responsabili del crimine non sfuggiranno al giudizio degli uomini e della storia né potranno uccidere il ricordo di coloro che assassinarono fisicamente. Nei giorni del luglio 1995, forse molti di noi volsero altrove lo sguardo per non vedere quanto di terribile avveniva nella vicina Bosnia: oggi, nel chiedervi perdono dell’indifferenza di allora, vi ringraziamo perché ci avete aiutato a continuare ad essere umani. Grazie, donne di Srebrenica e di Zepa: porteremo con noi il vostro messaggio di giustizia, di rispetto della diversità e di speranza nell’uomo!”. Quindi don Patrizio Guidi legge la commossa poesia composta da lui: “Madri di Srebrenica”. Paola Bellandi, presidente dell’associazione, offre un quadro con il ricamo eseguito da lei con una dedica alle madri. Loro capiscono il nostro disagio e la nostra solidarietà, ci abbracciano. Sarà difficile per molti di noi dimenticarle e continuare ad essere gli stessi di prima.


Mauro Matteucci


Madri di Srebrenica
Potrei  forse osare
chiedere a Voi  madri
d’immergere in quel sangue che fu vostro
il fuggente tempo di una domanda?

Sul vuoto di vita come voragine
da serba ferocia bestiale aperta
supplicante sto.
Ma temo l’imprudenza di viaggiante
curioso sopra le sciagure umane.

Sorregge e mi dà forza il saper della
ricchezza vostra di maternità.
Custode accoglie nell’offeso grembo
fecondata da pace nuova vita e
di popoli l’anima
dalle fosse risorta
perenne memoria offerta al domani
per quelle mamme che seppero forti
l’odio cancellare.

Ma lacera ancora quel lamento antico
che raccolgo nei tempi della storia
e a Srebrenica in quel giorno di morte:
“Un grido è stato udito in Rama,
un pianto e un lamento grande;
Rachele piange i suoi figli
e non vuole essere consolata,
perché non sono più”.

Ma i vostri figli ancor ritorneranno
forti e risorti figli di perdono
dono di Voi mamme
ventre nel futuro
utopia di pace.

                                     
Patrizio Guidi – 21 agosto 2008


La diplomazia e i diritti umani
Diplomazia. È una parola che ho cominciato a conoscere, nel suo vero significato, nei primi anni '90. Ne ho avuto l'occasione durante la militanza in Amnesty International, quando parlavo con diplomatici che mi spiegavano cosa occorreva fare per difendere i diritti umani. Non ci si doveva scontrare apertamente, mettendo in imbarazzo gli interlocutori. Molto meglio scambiare le idee in modo informale, nei corridoi dei palazzi delle organizzazioni internazionali, dove c'era l'occasione di mettere una parola buona per quel o quell'altro prigioniero per motivi di opinione.

Per ottenere risultati, mi spiegavano con la pazienza che ci vuole nei confronti di un ragazzino dalle buone intenzioni ma poco avvezzo alle cose del mondo, bisogna intrattenere buoni rapporti con tutti. Elencare i politici europei - anche italiani - che con Milosevic hanno tenuto buoni rapporti, nel corso degli anni, richiederebbe tempo e spazio. Per ricordare dove ha portato, quella diplomazia, basta un nome: Srebrenica.

Assistere ai massacri come quello avvenuto l'11 luglio 1995 oppure scatenare guerre dalla dubbia efficacia come quella per il Kosovo di quattro anni dopo. Pare che le diplomazie europee non conoscano vie di mezzo. Se a vent'anni di distanza dal genocidio di Srebrenica passasse l'idea che difendere i diritti umani è il modo migliore per prevenire massacri e che difendere i diritti umani significa impegnarsi con coraggio e serietà tutti i giorni, e non nei corridoi dei palazzi abitati dai diplomatici, allora questi decenni non sarebbero passati invano.

Daniele Scaglione