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mercoledì 4 febbraio 2015

LE MILLE SFUMATURE DI GRIGIO DELL’URANIO IMPOVERITO – DI STEFANIA DIVERTITO

a cura di Stefania Divertito, dal sito di Infinito edizioni

Il presidente Sergio Mattarella è un santo, così come nelle agiografie lette sui quotidiani, o il responsabile indiretto delle malattie di centinaia di nostri soldati impiegati nelle missioni all’estero, come invece sembra sfogliando forum, blog, prese di posizione?
In quest’Italia di bianchi o neri, le uniche sfumature di grigio ammesse sono quelle di certa letteratura che tra qualche giorno finirà al cinema. E invece, mai come in questa storia, ci muoviamo nel grigio.
Parliamo di uranio impoverito o meglio, come la scienza oramai ci dice con chiarezza, di inquinamento bellico: l’inalazione o l’ingerimento di aerosol di nanoparticelle di metalli pesanti. Ne scrivemmo dieci anni fa in un libro (Uranio, il nemico invisibile) in cui abbiamo ricostruito nei dettagli la vicenda. Dettagli che interessano in pieno l’attuale presidente della Repubblica che nel 2000 (e fino a giugno 2001) fu ministro della Difesa.
La domanda è: avrebbe potuto agire diversamente per tutelare i nostri soldati che si stavano “misteriosamente” ammalando dopo le missioni “di pace” nei Balcani?
Prima di esaminare quei mesi turbolenti, in cui sembrava che tutti i nostri soldati dovessero ammalarsi (fortunatamente non è così), una doverosa precisazione scientifica.
L’anno successivo alla pubblicazione del libro, nell’agosto 2006, fummo invitati a Hiroshima, alla prima conferenza internazionale sull’uranio impoverito. C’erano scienziati da tutto il mondo, ma la vera novità fu introdotta, e successivamente approfondita, da due studiosi italiani, coppia nel lavoro e nella vita, Stefano Montanari e Antonietta Gatti. Noi ne avevamo scritto nel libro ma negli anni i loro studi sono diventati patrimonio della comunità scientifica internazionale: attraverso l’utilizzo di un microscopio a scansione elettronica riuscirono a individuare le nanoparticelle killer prodotte dall’uranio impoverito, che esplode a elevatissime temperature, superiori ai 3.000 gradi, creando aggregati di metalli pesanti non esistenti in natura. Altamente tossici, se inalati o ingeriti riescono, anche grazie alla loro nanometrica dimensione, a bypassare le nostre difese e ad aggredire organi e cellule.
Ci scrive Montanari in una testimonianza: «Leggendo centinaia di articoli, pare che basti stare a contatto o nelle vicinanze di quei proiettili o di quel materiale per contrarre malattie. Di fatto non è così e basta controllare ciò che accade ai tecnici e agli operai che lavorano proprio quei proiettili per fabbricarli. Ad oggi, dopo decenni, non risultano tra loro patologie in qualche modo assimilabili a quelle dei civili e dei militari “vittime dell’uranio impoverito”. Come, per averci lavorato sopra di prima mano per oltre 10 anni, ho scritto fino all’esaurimento delle forze, da articoli a post di blog a libri, l’uranio altro non è se non una sostanza piroforica che produce quantità immani di nanoparticelle, e sono quelle ciò che troviamo da anni nei reperti dei 200 e passa militari che abbiamo avuto modo di studiare. Mai abbiamo trovato la minima traccia non solo di uranio (ho spesso spiegato il perché di questa apparentemente strana assenza) e di radioattività. Così, dunque, l’uranio c’entra sì, ma solo come produttore di polveri quando il proiettile urta il bersaglio. Stessa cosa accade per il tungsteno, stessa cosa con tutti gli esplosivi. L’uranio è particolarmente econanotossico perché, stante la temperatura che induce (3.000°C abbondanti), genera quantità enormi di polveri. Il tungsteno viaggia a oltre 5.000°C e dunque fa peggio, ma si usa raramente. Questo non significa che non sia anch’esso tra i colpevoli».
Precisazione doverosa perché negli anni ‘90 gli Usa erano già arrivati alla conclusione che la pericolosità dell’uranio fosse chimica, indotta dall’inalazione, e lo avevano scritto in documenti che si trovavano addirittura in internet (e che noi abbiamo allegato all’appendice del libro). Domanda: perché l’allora ministro della Difesa e i suoi generali continuavano a parlare di radioattività di fatto spingendo il dibattito su argomentazioni facilmente confutabili?
Il 16 dicembre 2000 il ministro sostenne ai microfoni dell’Ansa: «Non c’è alcun motivo di allarme. Non vi è collegamento tra l'uso di uranio impoverito che c’è stato in Kosovo e in qualche località della Bosnia in maniera assai più ridotta, con gli allarmi di cui si parla». Pur con tutte le attenuanti dovute a un periodo in cui l’allarme per le morti dei soldati era arrivato nei titoli dei tg della sera, cavalcato da chi si opponeva all’intervento militare nei Balcani, sarebbe stato più prudente non sbilanciarsi a favore di una o di un’altra tesi.
In “Uranio, il nemico invisibile” riportiamo la storia di Andrea Antonaci, morto il 13 dicembre 2000 che, già agli sgoccioli della sua giovane vita, aveva rilasciato un’intervista a Striscia la Notizia dicendo di essersi ammalato di uranio impoverito.
Il ministro Mattarella, pur manifestando solidarietà alla famiglia, spiegò che non era possibile perché Andrea aveva prestato servizio in Bosnia e lì l’uranio era pressoché inesistente. Due giorni dopo, il 18 dicembre (fonte Ansa) Mattarella tornò a parlare di «allarme ingiustificato». «Agli italiani sono state impartite tutte le indicazioni di prudenza e tutti i dati, gli elementi, le notizie che abbiamo dicono che per i nostri militari non c'è motivo di allarme».
Ma il 21 dicembre in Commissione Difesa della Camera dovette snocciolare i dati sull’uso di uranio, non solo in Kosovo ma anche in Bosnia. La colpa – affermò il ministro – era che la Nato non ci aveva avvisato in tempo del rischio. Ancora un’Ansa per il virgolettato preciso: «Appare necessario prevedere in seno all'Alleanza Atlantica procedure più adeguate di condivisione delle informazioni e approntare misure comuni su materie così delicate». Ed espresse rammarico verso la Nato: «Le organizzazioni internazionali interessate forniscono solo ora e per nostra richiesta un'informazione importante per la sicurezza della comunità bosniaca così come per quella internazionale». Insomma, avevamo appreso solo allora e grazie a nostre insistenze che era stato usato uranio in Bosnia.
Ma neanche 24 ore dopo fu smentito direttamente dal comando di Bruxelles: l’Ansa riporta il 22 dicembre che «alcune fonti della stessa Nato esprimono ''sorpresa'' perché “l'utilizzo dei proiettili in quelle operazioni non è un segreto da anni”. Le stesse fonti hanno lanciato un'ipotesi: “le informazioni sull'uso di proiettili all'uranio impoverito potrebbero non aver compiuto a suo tempo in Italia l'intero percorso dai livelli militari ai responsabili politici”».
Mattarella, molto probabilmente all’oscuro, dunque, non replicò. Annunciò che presto avrebbe formato una commissione medico scientifica guidata dal famoso ematologo Franco Mandelli. Il 4 gennaio il ministero organizzò un volo per Sarajevo. C’eravamo anche noi. Il ministro ci fece parlare con i soldati che apparivano tranquilli. Ma alcuni di loro, spente le telecamere, ci facevano domande precise: «Rischiamo qualcosa? Ci sono problemi?». Chiedemmo loro se andavano in giro con precauzioni ma la risposta era univoca: non ce n’era bisogno perché era stato detto loro che non c’erano rischi.
Sul volo di ritorno il ministro dichiarò: «Non è in discussione il leale impegno dei vertici militari, di tutti i vertici militari, cui va il mio più grande apprezzamento». Era una risposta indiretta alla Nato? E chi si preoccupava di rispondere alle domande dei soldati?
La Commissione Mandelli lavorava e a sorpresa già il 27 gennaio di quell’anno Mattarella annunciò che presto sarebbero arrivati i primi risultati. Quello che accadde è trascritto nelle tre relazioni prodotte da Mandelli e dal “braccio destro”, il fisico Martino Grandolfo: la prima relazione aveva molti buchi. Mancavano informazioni, dati, numeri. Lo stesso presidente dell’Ail volle continuare a lavorarci. Ma per i giornali bastava la frase: “Non trovato il nesso tra uranio e malattie”. Mandelli aveva precisato che non era in grado di cercarlo, quel nesso, con gli strumenti a disposizione. E lo scrisse anche nella seconda e nella terza relazione che arrivarono l’anno successivo. Ma – come abbiamo detto – in Italia i grigi piacciono solo al cinema.
Per più di venti volte i tribunali italiani hanno condannato lo Stato italiano a risarcire le famiglie di soldati deceduti. Ci sono più di 300 militari morti dopo le missioni. Più di mille sono i malati. L’allora ministro Mattarella non poteva saperlo. Ma dall’inizio degli anni ‘90 gli Usa conoscevano la pericolosità dell’uranio, da dopo la Sindrome del Golfo e sostengono di non avercelo nascosto. Quei documenti, d’altro canto, 15 anni fa si trovavano anche su internet, bastava cercarli. Era indispensabile mostrare quella sicurezza, gridare al “nessun allarmismo” e mostrarsi più preoccupato di rasserenare gli animi che di appurare il più rapidamente possibile la verità, di difendere i vertici militari invece, forse, di scoprire se qualcuno - che ne avesse avuto la possibilità - lo avrebbe dovuto informare meglio? Le famiglie delle vittime in quasi tutti i casi di vittoria in tribunale stanno ancora aspettando i risarcimenti. Sappiamo che si stanno coordinando per scrivere una lettera al nuovo presidente della Repubblica, e nuovo capo supremo delle Forze Armate.
Sarebbe meraviglioso, e finalmente giusto, se in questo nuovo corso di pacificazione, come sembra si possa evincere dal discorso di insediamento, il Capo dello Stato possa innescare l’input del riconoscimento di quanto dovuto ai familiari di queste vittime dello Stato.