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martedì 23 giugno 2015

Il grande cuore dei bosniaci: Miralem Pjanić e Srebrenica vent'anni dopo

Srebrenica, l’11 luglio del 1995. Oltre diecimila maschi tra i 12 e i 76 anni vengono catturati, torturati, uccisi e inumati in fosse di massa. Stesso destino hanno alcune giovani donne abusate dalla soldataglia. Le vittime sono bosniaci musulmani, da oltre tre anni assediati dalle forze ultranazionaliste serbo-bosniache agli ordini di Ratko Mladić e dai paramilitari serbi.
Abbiamo chiesto al calciatore della Nazionale della Bosnia Erzegovina Miralem Pjanić di parlarci dei suoi ricordi di quegli anni.
Quando è scoppiata la guerra in Bosnia avevi due anni, quando è ter­minata ne avevi cinque. Impossibile ricordare direttamente, dunque. Hai trascorso quegli anni, e quelli del dopoguerra, all’estero. Durante la tua crescita, nella tua famiglia, si parlava della guerra? In altre pa­role, quando hai “scoperto” cosa era successo nel tuo Paese durante gli anni della tua infanzia? E che impressione ti ha fatto?
Non ho ricordi della guerra, sono andato via dalla Bosnia nel 1991 e sono tornato per la prima volta nel 1996. Ricordo che i tank a distanza di anni passavano ancora in città per rassicurare la gente… Ero piccolo e impressionato, quando sono cresciuto ho appreso meglio le vicende della storia, è stata una cosa bruttissi­ma, è morta tanta gente. Mi raccontano spesso del genocidio di Srebrenica, una storia molto triste. Un giorno andrò a Srebrenica per vedere e sentire.
Hai giocato con la nazionale Under 18 del Lussemburgo e, in teoria, avresti potuto prendere cittadinanza francese (eri arrivato al Metz an­cora minorenne) e sicuramente saresti diventato una colonna di quella nazionale. Cosa ti ha spinto a giocare nella “tua” nazionale?
È vero, avevo la possibilità di giocare sia per la Francia sia per il Lussemburgo. Ma a spingermi è stato il mio cuore. Sognavo di aiutare il mio Paese a diventare calcisticamente forte come gli altri. Volevo che si parlasse bene della Bosnia. Volevo donare un sorriso alla gente. La gente bosniaca ha sofferto tanto. I calciatori sono amati e ogni volta che vengo chiamato do il massimo per vincere. Penso e spero che i tifosi possano dimenticare per qualche ora i problemi della quotidianità e divertirsi un po’, quando giochiamo.
Della nazionale della Bosnia Erzegovina fanno parte calciatori ap­partenenti alle diverse comunità del Paese. Come sono i rapporti perso­nali? Il tema di una guerra terminata meno di vent’anni fa influisce? Avete mai parlato di Srebrenica?
Lo sport unisce le persone. È così anche da noi, non c’è mai stato nessun problema. Tutti coloro che vengono a giocare per la Bosnia sono i benvenuti. L’unica cosa che conta è che vogliano il bene della Nazionale. Onestamente non parliamo troppo di quello che è accaduto. Ogni tanto ascoltiamo i racconti di qualche giocatore cresciuto in Bosnia durante la guerra. Non deve essere stato facile per loro…
La Federazione bosniaca ha mai organizzato iniziative per ricordare le vittime della guerra come per esempio visitare il memoriale di Potočari o incontrare le donne di Srebrenica? Pensi sarebbe una cosa positiva?
La Federazione deve occuparsi principalmente di calcio, ma se c’è l’occasione di aiutare la gente che ne ha bisogno, sicuramente è una cosa positiva. L’iniziativa deve partire da noi. Da parte mia, sento il desiderio di conoscere le persone che hanno vissuto tutto ciò. In futuro lo farò di sicuro.
Credi che una Nazionale che ha sicuramente un grande futuro da­vanti possa favorire la definitiva pacificazione nazionale in Bosnia Erzegovina?
Non posso saperlo. Noi in ogni caso faremo sempre il massimo per il nostro Paese, certo non è semplice andare oltre lo sport e fare di più. La cosa più importante è che la situazione si stabilizzi e che la gente abbia lavoro, che possa mangiare.
Vivendo all’estero, prima in Lussemburgo, poi in Francia e ora in Italia, che idea hai del tuo Paese e del periodo che sta attraversando?
Il mio Paese non versa sicuramente in una condizione economica come quella degli altri Paesi in cui ho vissuto, però ogni volta che torno in Bosnia noto che le cose pian piano migliorano. I bosniaci hanno un cuore grande e meritano un futuro positivo. Spero dav­vero che andrà sempre meglio. Io continuerò a fare il massimo per aiutare il mio Paese.
Il testo di Pjanić è raccolto interamente in Srebrenica. La giustizia negata, il lavoro di Riccardo Noury e Luca Leone i quali penetrano nel buco nero della guerra e del dopoguerra bosniaco e nel vuoto totale di giustizia che ha seguito il genocidio di Srebrenica, una delle pagine più nere della storia europea del Novecento e sicuramente la peggiore dalla fine della seconda guerra mondiale.