Oltre a lunghe ed estenuanti prove, dietro ogni spettacolo
teatrale c’è – talvolta dimenticato – il talento e la sensibilità di un
fotografo, chiamato a immortalare e rendere talvolta eterni istanti comunque
irripetibili. Giuseppe Distefano è tra questi grandi protagonisti della
macchina fotografa ed è la persona che, negli ultimi anni, ha immortalato in
scatti superbi i principali momenti di vita e d’espressione di tutti gli
spettacoli della grande regista e autrice palermitana. Il vastissimo repertorio
di immagini fotografiche degli spettacoli della Dante – MPalermu, Carnezzeria, La
Scimia, Vita mia, Michelle di Sant’Oliva, Cani di bancata, Il festino, Le
pulle, Acquasanta – è al centro di un prestigioso e raffinatissimo lavoro
dedicato all'opera della regista – una delle rivelazioni più importanti del panorama
del teatro contemporaneo, vincitrice per la regia e la drammaturgia di
importanti premi – e pubblicato da Infinito edizioni (Giuseppe Distefano, Il teatro di Emma Dante, 2010).
Delle immagini del fotografo siciliano la Dante ha scritto nella
prefazione firmata nel libro: “La luce delle foto di Distefano è
una luce che svela insopportabili dettagli, nascoste verità che dalla sala non
possono vedersi. C’è sempre nei miei spettacoli qualcosa di segreto, qualcosa
che non arriva al pubblico e che serve agli attori per mantenere il mistero che
nutre parole e gesti. Il mio teatro è, soprattutto, un accadimento; per questo
è importante trovare uno sguardo capace di cogliere il lato nascosto delle
cose”. A
Distefano abbiamo chiesto di rivelare a parole, in questa breve intervista,
alcuni di questi dettagli.
Giuseppe, nel tuo “Il teatro di
Emma Dante” tratteggi con scatti splendidi la prima fase della carriera di una
grande regista, stimata ormai non solo in Italia. Vuoi provare a pennellare ora
a voce il teatro di Emma, raccontandolo come lo vede un fotografo che raccoglie
in migliaia di scatti l’intrecciarsi di decine di vite con il genio creativo di
una grande regista?
Mi
interessano, perché credo che siano più vere, le immagini “sgrammaticate”. E il
teatro della Dante lo è. È “sgrammaticato” perché rompe e infrange regole
linguistiche e canoni scenici tradizionali. È un teatro dove non ci si trucca
per andare in scena, anzi, ci si strucca per essere, gli attori, più veri
possibile. Nel suo teatro troviamo occhi sbarrati, bocche spalancate, movimenti
sgraziati, posture sghembe, danze forsennate. E le foto ritraggono tutto ciò.
Tutta questa “grammatica” nasce da un encomiabile lavoro sul e col corpo. Un
lavoro duro, faticoso, rigoroso, al quale gli attori sono sottoposti. Un lavoro
che rivela l’essenza dell’attore, lo denuda, lo svela. È un lavoro dove è
importante non come si muove il corpo, ma cosa lo muove. E questa è la sfida
per chi fotografa: riuscire a cogliere in uno scatto la necessità interna di un
movimento, di un gesto, di un’espressione.
Come nasce il tuo rapporto professionale accanto a Emma
Dante?
Nasce da
un incontro, come tutte le cose importanti. Da un avvicinamento graduale
scaturito da una lunga e appassionata intervista in due tappe che le feci per
il mensile di spettacolo Primafila.
Era alle prese con un laboratorio per lo spettacolo Cani di bancata e le chiesi se potevo assistervi e fotografare le
varie fasi di lavoro. Da lì in avanti ho cominciato a entrare nelle viscere del
suo “fare” teatro. Entrare nello spazio creativo di Emma, nella sua scrittura
scenica, significa “sporcarsi”, essere anch’io corpo vivo della scena.
La regista Emma Dante, la grande creativa, e la donna,
coincidono o sono, come a volte accade una volta scesi dal palco, persone
completamente diverse?
Non
conosco la dimensione prettamente privata, intima, personale di Emma, tale da
poter di conoscerla. Conosco, un po’, quella artistica per la frequentazione in
momenti di prova, di laboratorio, di spettacolo, di incontri pubblici. Credo di
poter dire, come impressione, che Emma sia sempre lei, dentro e fuori la scena.
Il teatro di Emma Dante ha una
profondissima valenza sociale ed è coraggioso, oltre che splendido e ispirato,
teatro di denuncia. Basti pensare ai lavori dedicati dalla regista alla piaga
della mafia. Possiamo però definire quello della Dante “solo” teatro sociale o
c’è qualcosa – forse addirittura molto – di più?
Nel
lavoro di Emma c’è una forte dimensione di denuncia: vedi Cani di bancata, che parla di mafia e politica, o Le pulle, che affronta l’argomento
scomodo della prostituzione, del travestitismo, ecc. Ma la definizione di
“teatro sociale” non esaurisce il suo teatro. Non credo si possa catalogare e
ridurre a questa etichetta restrittiva. Emma racconta, mostra, evoca territori
umani aspri e violenti, cerimonie e ritualità (irrituali) che hanno radici in
mondi famigliari ancestrali e attualissimi, dove, in fondo, si può leggervi un
forte bisogno d’amore. Perché tutto nasce da lì. C’è, in sintesi, una cartografia
antropologica dell’anima che ha a che fare con l’essere umano.
Nel testo con cui accompagni le
immagini parli del teatro della Dante come di “pane per gli occhi”. È
un’immagine di una profondità e di una bellezza difficilmente eguagliabile. Perché
“pane per gli occhi”?
Perché
gli occhi, per un fotografo, e non solo, sono la fonte di nutrimento. Ci si
nutre di immagini. E quando queste ti “parlano”, quando toccano corde intime,
emotive, allora fanno parte di te, ti costituiscono. Ti nutrono, appunto.
Scrivo che la forza e le potenza delle immagini che Emma crea sono pane per gli
occhi, inteso come nutrimento emotivo e conoscitivo di un mondo interiore,
psicologico, sociale, che può servire a stimolare, a interrogare e
interrogarsi, offrendo allo spettatore suggestioni sommerse e svelamenti di un immaginario
personale e comune.
Perché, secondo te, da profondo conoscitore di teatro, il
governo di questo Paese sta sistematicamente buttando via questo “pane per gli
occhi”? Gli italiani forse non ne hanno bisogno?
L’affermazione emblematica di questo modo di
pensare che il governo di questo Paese ha sistematicamente attuato, è stata la
dichiarazione di un ministro quando ha sentenziato che la cultura non si
mangia. Chi pensa così dimentica che la cultura è nutrimento. È elemento
essenziale e insostituibile di conoscenza. In realtà l’aspetto tragico è
pensare che le persone debbano soltanto mangiare. Si trattavano così gli
schiavi. La cultura invece serve a dire alle persone che la vita ha un
senso al di là delle necessità primarie. Oltre il mangiare, che viene
senz’altro prima di tutto, c’è anche il fatto che con la mia vita io devo farci
qualche cosa e non quello che dice un altro. E che si voglia persone solo a
servizio di qualcun altro è esattamente quello che ha in testa proprio chi dice
che la cultura non si mangia.