“Nina nella Grande
Guerra” è un romanzo storico, in
equilibrio fra storia e finzione. Quale peso hanno avuto nella narrazione i due
termini, cioè l’invenzione narrativa e il rigore storico?
Nina
nella Grande Guerra è romanzo storico in senso ampio. La
narrazione si sviluppa attorno a fatti successi realmente, ma questi fatti
vengono messi in relazione attraverso il vissuto di personaggi che sono frutto
di fantasia. Storie minori e personaggi inventati servono a portare
all’attenzione del lettore la verità di fatti storiograficamente importanti.
Quali
sono allora questi fatti veri su cui si costruisce il plot del romanzo?
I fatti sono
sostanzialmente tre.
Il primo: due
giorni prima della rotta di Caporetto arrivano al comando italiano di Cividale
due disertori romeni. Questi consegnano in mani italiane il piano di attacco
austriaco così come si sarebbe verificato il 24 ottobre.
Il secondo: il
comando di Cividale, in conseguenza a questa informazione, decide di mandare in
località Foni, poco distante da Caporetto, uno dei due reggimenti che
compongono la brigata Napoli, così da arginare lo sfondamento del giorno dopo. Sono
cinquemila uomini. Troppo pochi, comunque. Non avrebbero avuto alcuna
possibilità di fare la differenza. Ma il giorno dopo la brigata Napoli non sarà
al posto designato. Tutti quei soldati se ne staranno nascosti nelle alture
circostanti. Questo è ciò che succede.
Il terzo fatto è
davvero piccolo e insignificante ma mi conquistò più di tutti appena ne venni a
conoscenza, tanto da farne il vero cuore del romanzo. Nei giorni successivi lo
sfondamento di Caporetto, dopo la sostituzione di Cadorna col generale Diaz, viene
dato l’ordine di scavare una trincea bassa, 30 chilometri sotto la linea del
Piave. La trincea, che seguiva la linea Treviso-Vicenza, sarebbe servita ad
arginare un eventuale sfondamento dell’esercito nemico anche sulla linea del
Piave. Durante lo scavo della trincea, a Galliera Veneta, viene tirato fuori un
morto. Un morto sepolto. E la cosa è assolutamente incredibile.
Un
morto non era cosa poi così incredibile nello scenario di quei giorni.
Un morto in guerra
no di certo. Ma quel morto, fra l’altro sepolto da non molto, è saltato fuori
da uno scavo fatto in mezzo a un campo, dove per caso passava la linea della
trincea, in mezzo a un campo confiscato dall’esercito. Quel morto era stato
sepolto lontano dal cimitero, ovviamente da qualcuno che non voleva si sapesse.
Chi era quel morto? Chi l’aveva sepolto?
Appunto,
chi era?
Nessuno l’ha mai
saputo. E non venne fatta neppure nessuna indagine dai carabinieri di Galliera
Veneta di quel tempo.
E
dunque?
Dunque, pur non
conoscendo la vera storia, io ho voluto rendere ragione a quel fatto e a quella
vita. Ho voluto, ovviamente in maniera fantasiosa, costruire un’indagine proprio
attorno a quel ritrovamento. Il primo capitolo del romanzo è proprio il ritrovamento
del morto da parte dei militari che scavano la trincea.
La
perfetta apertura per un giallo.
Esattamente un
giallo. Appena lessi di questo fatto decisi che il mio romanzo doveva essere appunto
un piccolo giallo di paese, con tutti gli ingredienti tipici del giallo: un
morto, che è appunto quello tirato fuori dallo scavo, un maresciallo che
indaga, un appuntato stravagante come suo collaboratore, e poi personaggi che
hanno qualcosa da nascondere, persone che sanno qualcosa o forse no, qualcuno
che ha visto qualcosa… insomma… gli elementi classici che devono esserci in un
racconto di genere.
E
come si lega questo giallo di paese con gli altri fatti? Quello dell’assenza
della brigata Napoli ad esempio?
Ovviamente non
posso svelare le soluzioni della storia. Ma posso dire ad esempio che, nel mio
racconto, l’assenza della brigata Napoli alla stretta di Foni è da leggersi
all’interno di una storia d’amore fra due dei protagonisti, un tenente e la sua
fidanzata. Quasi sicuramente le cose non sono andate così, ma non è questo ciò
che conta. Quello che io racconto nel mio romanzo è un pretesto per
sottolineare un fatto. In questo caso il fatto è l’assenza della brigata nel
punto designato. Nessuno sa il perché. Certo è che un motivo concreto deve
esserci stato. Sembra logico pensare che qualcuno deve avere avvisato quei
soldati che il giorno dopo ci sarebbe stato quell’enorme massacro. E
sicuramente quell’informazione non è arrivata attraverso le gerarchie di comando.
L’esercito funzionava in maniera rigorosa. Quando veniva dato un ordine di
spostamento a un gruppo di uomini, nessuno, a nessun livello, maggiori o
tenenti che fossero, sapeva la verità sulla nuova missione. All’ultimo arrivava
un portaordini con l’ordine preciso. Insomma, i reggimenti venivano spostati
senza possibilità per gli uomini di sapere il perché, il cosa e il quando.
Questo evitava fughe di notizie in caso di cattura e soprattutto evitava che
ordini non venissero rispettati, come è successo nel caso del reggimento della
brigata Napoli la mattina del 24 ottobre.
Quindi,
nel suo romanzo, la motivazione dell’assenza della brigata Napoli è fantasiosa?
Certo. Solo la
motivazione però. Non il fatto in sé. E questo è molto importante. La pretesa
che si ha scrivendo un romanzo storico è di far conoscere al lettore qualcosa
di nuovo da inserire in uno scenario tutto sommato conosciuto. Nella fase di
studio delle varie questioni storiografiche mi sono avvalso dell’aiuto di un
amico, Valerio Curcio, grande appassionato e conoscitore attento della Grande
Guerra. La domanda che gli ho fatto subito è stata questa: ci sono dei fatti
senza risposta? Delle vicende andate in un modo e non si sa il perché? Una di
queste questioni aperte è proprio l’assenza di un reggimento della brigata
Napoli al suo posto la mattina del 24 ottobre. Scrivere un romanzo storico,
rispetto a un saggio storico, dà la libertà di romanzare attorno ai fatti.
Allora, se c’è un meandro buio nelle pieghe di una storia, è proprio lì che uno
scrittore si può infilare con soluzioni romanzate ma che, ripeto, servono a
ribadire un fatto storico importante.
E
cosa mi dice dei disertori romeni?
Anche loro li ho
trattati come personaggi da romanzo. Del resto… non si sa niente sul loro
conto. Mi sono preso quindi la libertà di inventare il loro vissuto e le loro
motivazioni. Ma non posso dire altro senza il rischio di svelare elementi
importanti per chi avrà voglia di leggere il romanzo.
Il
personaggio principale è Nina, una ragazza. È strano che il protagonista
principale del romanzo sia una donna, nel mezzo di una guerra combattuta da
uomini.
Io sono il tipo di
scrittore che non comincia a scrivere una sola parola finché non ha deciso ogni
sfumatura anche del più piccolo personaggio e soprattutto il contenuto di ogni
capitolo. Avevo già cominciato a strutturare il giallo, pensando a varie
ipotesi circa il colpevole, i colpi di scena eccetera… quando ho rivisto il
film di Kubrick Orizzonti di gloria. È
un film di guerra classico, dove tutto ruota attorno a personaggi
dell’esercito. Tutti maschi. Nell’ultima scena però compare una ragazza. I
nostri eroi sono chiusi dentro una bettola a bere e a divertirsi, quando il
gestore fa salire sul piccolo palcoscenico una ragazza. Figuriamoci le urla e i
fischi di gradimento dei militari. La ragazza intimidita, fra le lacrime,
comincia a cantare. È tedesca la ragazza. Canta una canzone di guerra, triste e
dolorosa. Un po’ alla volta i militari cambiano atteggiamento. Si commuovono.
Quella ragazza non è più semplice oggetto del loro desiderio, quella ragazza
diventa il simbolo di ogni sorella, fidanzata, madre… di tutte le donne che
sono a casa e che aspettano e piangono per i loro ragazzi al fronte. Le donne…
non sono state protagoniste della guerra, non sulla carta almeno, ma il loro
dolore, le loro perdite, le loro fatiche, ad esempio nel lavoro dei campi
privato delle braccia dei maschi, tutte queste cose le hanno rese protagoniste
eccome. Faccio un esempio… nella fase di studio e ricerca per questo libro ho
scoperto che una donna di Galliera Veneta perse sei figli maschi in guerra,
tutti morti in prima linea… ora, se non è protagonista assoluta della guerra
una donna che si è vista costretta a un sacrificio così enorme… bè, non saprei
chi altro potrebbe esserlo.
Insomma, questo
solo per dire che nel momento in cui stavo rivedendo il finale del film di
Kubrick, in quel momento ho deciso che il protagonista del mio romanzo doveva
essere una donna. Non sapevo come ciò sarebbe successo ma ho cominciato subito a
pensarci. Ho dovuto fare spazio a questo nuovo personaggio stravolgendo un po’
di cose già decise, ho dovuto pensare a delle caratteristiche che potessero
metterlo in relazione con tutti e tre i fatti che ho citato prima. Eccetera…
Quindi
nella lavorazione del romanzo ci sono state due fasi ben distinte.
La fase di
strutturazione è sempre la più lunga. Lavoro sui personaggi, sugli intrecci,
sui fondali narrativi. Comincio poi a scrivere i contenuti dei capitoli su dei
post-it e li attacco al muro. Scrivo e riscrivo i foglietti, li sposto, li
incrocio, li ordino, avendo davanti sempre il quadro di una grande lavagna dove
tutto un po’ alla volta trova forma e spazio. Finché questo quadro non è a mio
giudizio perfetto non comincio a scrivere. A volte le soluzioni arrivano in
breve tempo, altre volte bisogna saper aspettare. Poi le cosiddette
illuminazioni possono arrivare da qualsiasi parte, come nel caso della visione
del film di Kubrick. Nel caso specifico di Nina
nella Grande Guerra questa fase è durata circa quattro mesi. Ma… tanto per
dire… ho un busta nel cassetto dove ci sono i foglietti di un romanzo che mi
sta molto a cuore. Ancora non ho trovato tutte le soluzioni e per cui lo tengo
là. Ogni tanto lo tiro fuori, riattacco i foglietti al muro e ci dedico una
mezza giornata. Lo scriverò solo quando sarò sicuro di ogni singolo aspetto.
Perché
intanto non cominciare a scriverlo?
Perché magari poi sarei
costretto a riscrivere delle parti, se non addirittura il romanzo per intero. È
una cosa che sento capitare alla maggior parte delle persone che scrivono. Non
voglio esprimere giudizi sul metodo degli altri, ma ho sentito dire da molti
scrittori di avere riscritto un romanzo anche quattro o cinque volte. Bisogna
riscrivere perché alla fine di una stesura ci saranno sicuramente delle
incongruenze, delle parti che risulteranno inutili e pesanti, dei personaggi
che si sono chiarati come personaggi nel corso della scrittura, per cui vanno
cambiati al loro esordio, magari. No, no… mi manderebbe fuori di testa una cosa
del genere. Se si decide tutto in precedenza, non ci potranno essere
incongruenze e cose che non funzionano.
Dunque,
la scrittura vera e propria di “Nina nella Grande Guerra” quanto è durata?
Non più di tre
mesi. Ma si tenga presente che a quel punto, quando tutto è già stato deciso e
valutato (le caratteristiche dei personaggi, i contenuti di ogni capitolo,
addirittura la lunghezza di ogni capitolo)… bè, a quel punto c’è solo il
piacere della scrittura. Non ci sono più cose da valutare, né scelte da fare.
Tutto è chiaro, deciso e lineare. Alla fine della scrittura non ci sarà
certamente bisogno di una seconda stesura, perché tutto già si tiene insieme
perfettamente, appunto perché fa già parte di un progetto unitario e ben
pensato.
Sembra
un metodo che funziona.
Funziona, e lo
consiglio a tutti quelli si approcciano alla scrittura. Diversamente, è come
fare una casa senza un progetto. Se si fa una stanza alla volta, bisogna, a
ogni nuova decisione, sfondare delle pareti, rifare il tetto, rifare gli scavi
perché magari prima il bagno era di là e ora lo si vuole fare di qua. Non è più
finita! E ogni nuova scelta rischia di essere angosciante, faticosa e costosa.
E poi quando si scrive con la serenità di un progetto già ben definito… non c’è
altro che il piacere della scrittura… e questo è fondamentale per riuscire a
dare il meglio di sé.
Un libro scritto
con piacere dunque, Nina nella Grande
Guerra, e anche si legge con piacere.
Consigliato a tutti
quelli che amano i romanzi storici, i gialli, le storie d’amore.