Ogni
tanto, un giornale, una rivista o un sito internet decidono di occuparsi del
massacro avvenuto ad Aigues-Mortes il 17 agosto 1893; approssimazioni e
imprecisioni vengono non di rado diffuse presso il grande pubblico come verità.
I fatti, com’è noto, si svolsero nelle saline della città dove i circa 500
italiani (400 stagionali provenienti soprattutto dal Piemonte e dalla Toscana e
100 già immigrati in Francia) ivi convenuti per la breve stagione della
raccolta del cosiddetto oro bianco furono aggrediti con inaudita violenza.
Viene
immancabilmente affermato che gli autoctoni erano esasperati perché la
Compagnia delle Saline preferiva assumere gli italiani i quali offrivano le
loro braccia a un prezzo più basso. Un’affermazione di apparente buon senso, ma
falsa perché agli immigrati veniva rimproverato esattamente l’opposto: si
lavorava a cottimo – “la peggiore forma di concorrenza tra lavoratori” aveva
dichiarato appena una settimana prima il Congresso dell’Internazionale
Socialista tenutosi a Zurigo – e gli italiani si distinguevano per l’energia
dispiegata: erano venuti a fare la stagione per riportare a casa il gruzzolo
più consistente possibile. La Compagnia, inoltre, non assumeva nessuno, non conosceva
neppure il nome degli operai; trattava con i caporali – francesi o italiani che
fossero – i quali le rivendevano con lucro il lavoro altrui.
Il
numero dei morti viene talvolta definito “incerto”, talaltra viene fatto
variare “tra i 15 e i 120”, spesso si riporta come attendibile la cifra di 50
vittime avanzata dall’“autorevole Times di
Londra”. In alcuni casi, a queste vittime italiane, vengono aggiunti 4 morti da
parte francese. In questo generale annaspamento, un posto di rilievo merita
l’Enciclopedia Treccani che, nell’edizione del 1929, così scrive: “Il 19 agosto 1893, in un periodo di tensione
franco-italiana, circa 400 operai italiani, che lavoravano in A., furono
gettati nel Rodano dalla folla imbestialita”. Affermazione surreale visto che
il Rodano non passa da Aigues-Mortes. La data del 19 agosto ci fa supporre che
si tratti piuttosto di quella del giornale consultato dal compilatore della
voce. E qui sta il punto.
Durante i giorni successivi all’eccidio, le prime pagine
dei quotidiani italiani riportano con grande evidenza le notizie provenienti da
Parigi. Ma cosa se ne sa a Parigi di ciò che è avvenuto a 800 chilometri di
distanza? Nessun giornalista residente nella capitale pensa bene di recarsi in
loco. Pervengono dispacci dal capoluogo del dipartimento, Nîmes – dove
il sentito dire e le manipolazioni prefettizie regnano sovrane – con i quali si confezionano gli articoli che
vengono spediti alle redazioni della Penisola. Nella selezione dei vari dati di
cui si viene a conoscenza, risulta essere determinante l’orientamento politico
del giornale: conciliante l’atteggiamento degli organi filogovernativi –
Giolitti aveva iniziato una marcia di
riavvicinamento verso la Francia che l’eccidio ostacolava –, catastrofista invece quello dei fogli triplicisti
legati all’opposizione crispina.
Queste fonti giornalistiche alimentarono per decenni gli
scritti che in Italia fecero riferimento all’eccidio: manuali scolastici,
storie generali, enciclopedie, e quant’altro. In Francia, invece, l’avvenimento
venne totalmente occultato: neanche i libri sulla storia della città di
Aigues-Mortes ne facevano menzione. Solo negli anni Settanta del secolo scorso
un gruppo di ricercatori, i cui nomi sono Pierre Milza per la Francia, Nunziata
Lo Presti, Lucio D’Angelo, Teodosio Vertone e il sottoscritto per l’Italia,
pensò bene di andare a frugare tra le carte degli archivi e nei loro articoli
la verità cominciò a farsi strada. Nel 1993, in occasione del centesimo
anniversario, chi scrive pubblicò in Italia e in Francia il primo libro
dedicato all’argomento1 articolando la ricostruzione in tre momenti:
contesto, fatti e conseguenze. Nel 2010, giunse il libro di Gerard Noiriel che
con padronanza inquadra l’avvenimento all’interno delle tensioni della Terza
Repubblica e formula interessanti ipotesi di ascendenza sociostorica, ma che
non si scosta da un’ottica francocentrica, ignorando sostanzialmente la
produzione storiografica e gli archivi in italiano.
Malgrado le certezze acquisite dalla storiografia, le
principali, se non le sole, fonti di molte delle successive citazioni e
ricostruzioni continuarono ad essere gli articoli pubblicati a caldo dalla
stampa dell’epoca ai quali abbiamo fatto cenno. Metto da parte la frottola
allucinante dei due bambini italiani impalati e portati come trofeo per le
strade della città e passo a quanto ebbe a scrivere un noto giornalista di Repubblica nel 2009. Una “guerra tra
poveri” contro la manodopera italiana dichiarata in Inghilterra dai locali al grido
di “British jobs for
British workers” gli fece venire in mente Aigues-Mortes dove –
scrisse dopo aver consultato la raccolta di un vecchio quotidiano – alcune decine di operai italiani vennero uccisi,
scuoiati e messi sotto sale. La fonte mescolava (per superficialità o per
malafede?) l’eccidio che era appena avvenuto con un episodio che aveva avuto
luogo nella stessa cittadina qualche secolo prima, nel 1421, quando ai cadaveri
dei soldati borgognoni trucidati dai nemici venne fatto subire quel sanitario –
così si pensava – trattamento. Talvolta non si tratta tanto di
mancata verifica delle fonti quanto di pregiudizio ideologico, magari
inconscio: in occasione del 120° anniversario, nell’agosto 2013, il Secolo XIX ospitò un articolo di un
autorevole storico dell’Università di Genova secondo il quale la xenofobia
anti-italiana era dovuta alla presenza di operai provenienti dall’Italia
meridionale. No, caro professore, il razzismo non guarda in faccia a nessuno:
neanche un immigrato nelle saline era nato a sud della provincia di Pisa.
La consultazione degli archivi di Aigues-Mortes, di
Angoulême (dove si svolse il processo), del MAE di Roma e dei comuni dai quali
provenivano le vittime ci permette di conoscerne il numero e l’identità. Il
massacro si consumò verso il mezzogiorno di quella lugubre giornata. La
mattina, gli operai italiani, in gran parte piemontesi, che lavoravano nella
salina della Fangouse, a otto chilometri dalla città, vedono arrivare circa
cinquecento malintenzionati armati di randelli e di forconi. Alcuni scappano,
altri si rifugiano, su consiglio dei pochi gendarmi accorsi sul posto, nella
baracca che costituisce il loro misero alloggio. La costruzione viene presto
assediata e presa d’assalto; qualcuno riesce a salire sul tetto, lo sfonda e
prende a lapidare i malcapitati. Si teme il peggio. Al capitano Cabley che
comanda i gendarmi perviene la notizia che, su indicazione del prefetto, gli italiani
sono stati tutti licenziati e che vanno portati alla stazione perché tornino al
loro paese.
Inizia dunque la marcia verso la stazione: un’ottantina di
italiani protetti da venticinque gendarmi a cavallo e seguiti da una folla
delirante che, appena si crea un varco, non esita a colpire selvaggiamente con
randelli e forconi. Molti, quando possono, fuggono tra i vigneti che
costeggiano il sentiero in cerca di salvezza; vengono sistematicamente rincorsi
e, se acciuffati, colpiti senza pietà. Tra i fuggiaschi, Secondo Torchio, un
giovane di Tigliole (Asti). Carlo Bonello, un altro tigliolese che si trovava
assieme a lui, dichiarerà che Secondo – che non mangiava da due giorni perché non aveva
ancora potuto essere assunto – dopo
essere scappato, era stato inseguito e raggiunto da una “turba inferocita”. Lo
aveva visto allargare le braccia e cadere a terra in mezzo alla campagna. Tra
gli altri fuggitivi, Giovanni Giordano (il “portavoce degli italiani”),
ventiquattrenne di Palanfrè (frazione di Vernante), che viene raggiunto da
quattro individui che lo buttano a terra e lo picchiano senza tregua. Prima che
muoia, uno dei francesi invita i propri compagni a fermarsi perché ha
riconosciuto nel Giordano un vecchio compagno di lavoro. Nell’aria risuonano
gli spari di alcuni bracconieri che si sono uniti alla folla.
Allorquando le mura medievali della città cominciano a
farsi più nitide e si pensa che il calvario stia per finire, dalla Porta della
Regina si vede uscire un’altra banda formata da centinaia di esagitati. Lo
scontro è inevitabile e la caccia all’uomo non trova ostacoli. Per mettere fine
al massacro, il capitano fa sparare in aria. Quando si riesce a ripartire, in
terra giacciono sei cadaveri.
Svoltato l’angolo delle mura, la strada si restringe.
Enormi pietre vengono lanciate da ogni parte. “Come bestie portate al macello –
scrive il Procuratore generale – gli italiani si sdraiano sulla strada,
sfiniti, aspettando la morte, lapidati, storditi, lasciando a ogni passo uno
dei loro”. Un certo Buffard, tenendo il manico di una pala con le mani,
colpisce i feriti con inaudita violenza. Qualcuno si salva fingendo di essere
morto. Per un altro italiano, però, non ci sarà scampo.
Si riesce a porre in salvo la trentina di sopravvissuti
nella vicina Torre di Costanza. Alle 17 giunge da Nîmes la truppa tante volte
richiesta nel corso della giornata. Il capitano con alcuni uomini si reca sui
luoghi del massacro con alcuni carretti. Caricano sette cadaveri e diciassette
feriti che trasportano nell’ospizio cittadino gestito da suore.
La mattina del giorno successivo, 18 agosto, vengono fatti
fotografare i sette morti che saranno sepolti anonimamente in una fossa comune
nel cuore della notte. Le foto vengono consegnate al console italiano a
Marsiglia Bartolomeo Durando, il quale il 20 è arrivato ad Aigues-Mortes, ai
fini dell’identificazione. Durando, accompagnato dall’assessore Advenier che è
anche agente consolare italiano, fa visita ai feriti (“assaliti con randelli,
mazze, pietre e forconi per finirli come si farebbe contro i cani idrofobi”
scriverà) che sono rimasti all’ospizio perché intrasportabili. Uno di essi, il
ventinovenne pinerolese Vittorio Caffaro, morrà di tetano il 17 settembre dopo
atroci sofferenze.
Gli altri italiani già nel tardo pomeriggio del 17 sono
stati fatti salire su un treno alla volta di Marsiglia. Chi non risiede in
Francia o non deve farsi medicare nel locale ospedale prosegue per l’Italia.
Tra questi, c’è Amaddio Caponi, trentacinquenne di San Miniato (Pisa). Sul
treno si sente male. Viene fatto scendere alla stazione di Porto Maurizio e
portato nel locale ospedale dove morrà il 26 agosto. La sua famiglia riceverà
l’indennizzo di 19.000 lire.2
Al ritorno di
Durando in Consolato, si cerca di identificare le vittime tramite le foto, si stende
la lista degli operai italiani presenti nelle saline e quella dei dispersi. Per
le prime due operazioni ci si rivolge ai connazionali che sono rimasti in
Francia e in particolare ai capisquadra; per la terza, si registrano
testimonianze – “Con
me c’era XX che poi non ho più visto” –
o lettere che pervengono dall’Italia – “Mio
padre XX non dà più segni di vita, pensiamo si trovasse ad Aigues-Mortes. Si
tratta quindi piuttosto di una lista di presunti dispersi che andrà
assottigliandosi col passare del tempo. Alcuni autori danno per buona la prima
lista contenente quattordici nomi che vengono aggiunti ai “morti ufficiali” per
fare un bilancio complessivo. Si ignora che in quella lista si trovano
Ernesto Giuliano di Oneglia, Chiaffredo Mainero di Moretta, Ermolao Marconi di
Calci, Giovanni Reggi e altri che sono vivi e vegeti come ci informano i
successivi documenti consolari. Nessun familiare di questi presunti morti,
inoltre, farà domanda di indennizzo all’apposita Commissione governativa che
pubblicherà i risultati dei suoi lavori nella Gazzetta Ufficiale del 19.7.1894.
Tra i novantasei feriti (“gravemente”, “seriamente” e “leggermente”) che
saranno indennizzati si trovano invece alcuni dei nominativi della prima lista
dei dispersi.
Nella lista si trova anche il nome di
Secondo Torchio del quale abbiamo parlato. La mamma, Teresa Secco, viene a
sapere da Carlo Bonello quanto abbiamo più su riferito. È quindi convinta, come
afferma al sindaco di Antignano, paese nel quale abita, che suo figlio sia
stato ucciso. Non riceve alcun indennizzo perché il corpo di Secondo non è
stato ritrovato e non si è quindi sicuri della sua morte. Ancora 13 anni dopo,
non avendo più visto il figlio e vivendo nella miseria, reitera, senza
successo, la richiesta di indennizzo tramite un deputato locale. È da supporre,
invece, che Secondo Torchio sia rimasto vittima dell’omertà, oltre che della
follia xenofoba. Il 21 settembre 1893 il vicario di Aigues-Mortes, dà
“sepoltura ecclesiastica a uno sconosciuto”. Come escludere che si tratti del
corpo di Secondo Torchio ritrovato tra le vigne? Il fatto che la registrazione,
malgrado sia passato più di un mese e ci siano state nel frattempo non poche
sepolture, venga effettuata immediatamente dopo quella delle vittime inumate
dopo il massacro, lascia intendere che il primo a formulare quest’ipotesi sia
stato proprio il sacerdote.
Nessuna comunicazione del ritrovamento di questo cadavere fu
data alle autorità italiane; probabilmente per non appesantire il, già pesante,
contenzioso che le trattative diplomatiche avevano iniziato ad affrontare.
Con ogni probabilità, dunque, le vittime ammontano a dieci.
Passiamo rapidamente adesso al problema della loro identificazione. Le
testimonianze raccolte in Consolato permettono di identificare cinque dei sette
fotografati. Si tratta di Carlo Tasso, 58 anni, di Montalero, oggi frazione di
Cerrina (Alessandria); Bartolomeo Calori, 26 anni, di Torino; Giuseppe Merlo,
29 anni di S. Biagio, frazione di Centallo, (Cuneo); Lorenzo Rolando, 31 anni
di Altare (Savona); Paolo Zanetti, 29 anni, di Nese, oggi frazione di Alzano
Lombardo (Bergamo).3 Alcuni cadaveri non vengono riconosciuti, ma la
cosa non è così semplice, infatti le ricerche e le indagini continuano in
Italia. I familiari di Giovanni Bonetto, trentunenne di Frassino (Cuneo)
emigrato assieme al fratello a Marsiglia da otto anni, fanno in modo che la
foto sia fatta pervenire al sindaco del paese che riconosce Giovanni così come
lo riconoscono i familiari e vari conoscenti. La Commissione per le indennità è
diffidente, ma anche il medico legale incaricato dal questore di Roma riconosce
Giovanni sulla base della presenza di tracce di una ferita che egli aveva subìto
da adolescente e della quale avevano riferito i familiari. La pratica si
incaglia tra i meandri della burocrazia e i familiari di Giovanni Bonetto non
riceveranno alcun risarcimento. Se si pensa che di Giovanni a Frassino (né a
Marsiglia per quanto si sappia), dopo l’eccidio non si registra alcuna traccia,
c’è da pensare che lo Stato abbia mostrato nel suo caso, come in quello di
migliaia di altri emigrati, un volto non propriamente umano.
Dopo l’eccidio, circolava la voce che dei cadaveri di
italiani potessero trovarsi nelle campagne. Il console Durando richiese alle
autorità francesi un’accurata ricerca che non diede alcun risultato. Dalle
carte della Commissione per le indennità –
della quale tutti in Italia erano a conoscenza
– non emerge alcuna richiesta di
indennizzo per decesso a persone diverse da quelle summenzionate.
Le vittime del massacro – fino a prova contraria, naturalmente – sono quindi dieci: sei piemontesi, un lombardo, un
toscano, un ligure e una rimasta non identificata. Non è improbabile che si
continui a parlare di “numero imprecisato”, di “50 morti come sostiene il
Times”, di corpi “sepolti dalle (inesistenti)
sabbie mobili” o “trascinati dalla corrente (uguale praticamente a zero) dei canali”. Ben altro, però come
abbiamo visto, è quanto emerge dai documenti che poco spazio lasciano
all’immaginazione.
1. Cfr. Enzo Barnabà, “Aigues-Mortes, una tragedia
dell’immigrazione italiana in Francia”, Torino e “Le sang des marais”, Marsiglia che, aggiornati, sono oggi diventati
“Morte agli italiani!”, Infinito
edizioni, Formigine, 2008 e “Mort aux
Italiens!”, Éditalie, Toulouse, 2012.
2. Cfr. Commissione delle indennità ai danneggiati
di Aigues-Mortes, seduta del 13 marzo 1894, Archivio MAE, serie Z, B. 130.
3. Cfr. Enzo Barnabà, “Mort aux
Italiens!”, op. cit. p. 112. Diversamente da quanto scrive Gérard Noiriel in “Il Massacro degli italiani”, Tropea,
Milano, 2010, p. 209, Mariano Ferrini di Morrona, frazione di Terricciola
(Pisa) non è da annoverare tra le vittime: riceve dalla Commissione la somma di
750 lire a causa delle ferite riportate e inoltre nel 1933 era ancora in vita
poiché trasferiva il proprio domicilio da Terricciola a Livorno (Anagrafe di Terricciola).