Nelle figurine dell’orrore delle
guerre dell’ex Jugoslavia, sotto il nome di Ratko Mladic compare quella parola.
È probabilmente destinata a rimanerci
un po’. Altri mesi, almeno, fino a quando la sentenza di primo grado nei
confronti dell’ex generale delle forze serbo bosniache non sarà stata emessa.
Di Mladic, oggi, ricorre il quinto
anniversario dell’arresto, avvenuto esattamente il 26 maggio 2011: 16 anni dopo
il genocidio di Srebrenica, che costituisce uno degli 11 capi d’accusa di cui
Mladic deve rispondere e che comprendono anche la “serbizzazione” di altre zone
della Bosnia nonché gli attacchi contro i civili di Sarajevo.
Sedici anni di ritardo, 16 anni di
protezioni e complicità, 16 anni di mancata giustizia.
I sopravvissuti al genocidio di
Srebrenica e ai crimini di guerra e contro l’umanità e, con loro, i familiari
delle vittime, aspettano ancora, così come hanno aspettato il verdetto di primo
grado nei confronti dell’altro “presunto” genocida (Radovan Karadzic, che è
ancora tale dato che l’appello contro il verdetto di primo grado deve ancora
iniziare).
Aspettano e sperano che il Tribunale
per l’ex Jugoslavia riesca a emettere una sentenza definitiva di colpevolezza,
a cancellare quel “presunto”, quella offensiva definizione. Sempre che il
Tribunale non chiuda prima. Sempre che Mladic non muoia prima. Sempre che…
Quella per la Bosnia è una giustizia
condizionata da troppi “sempre che”.