Chernobyl,
26 aprile di trent’anni fa. L’esplosione del reattore numero 4 della centrale
nucleare ucraina scatena una potenza radioattiva quattrocento volte superiore
alle bombe sganciate dagli americani su Hiroshima e Nagasaki. Il disastro viene
minimizzato, inizialmente nascosto, dalle autorità sovietiche dell’epoca e
ancora oggi non se ne conosce appieno l’intera magnitudo.
Tre decenni dopo, quando i lavori di messa in sicurezza
della struttura sono ancora lentamente in corso, Emanuela Zuccalà racconta nell’epub
Giardino
Atomico la sua indagine sul campo, arrivando a toccare il mostro
atomico con mano, a pochi metri dal sarcofago in cemento, il monumento funebre
che imprigiona il reattore nucleare.
Qui una breve ricostruzione di quei
giorni lontani.
“Agli abitanti di Pripyat non arriva
nessuna comunicazione fino al pomeriggio del 27 aprile. Nella notte tra il 25 e
il 26 hanno osservato il bagliore violaceo apparso all’improvviso sopra la
torre del reattore ma, tornata la luce del giorno, riprendono tranquilli le
loro attività. Non viene diffuso alcun avviso sulla necessità di restare chiusi
in casa, però ci sono uomini in divisa che lavano le strade della città con un
liquido bianco. Arriva la Protezione civile ucraina.
Solo verso mezzogiorno del 27 aprile
un messaggio radio annuncia l’imminente evacuazione. Da Kiev arrivano 1.100
pullman per trasferire tutti lontano, in altre province. Uomini, donne e
bambini portano con sé pochi oggetti: sono convinti che torneranno. In poche
ore, Pripyat si spoglia di tutte le vestigia umane per trasfigurarsi in una
città-ombra, eternamente atrofizzata nella sua inconsapevole angoscia”.