
Scrive
il giornalista Aldo Cazzullo nella sua prefazione al libro, che “Papà
Mekong ha il merito non solo di raccontare
terre e personaggi lontani, ma anche di aprire la nostra mente e il nostro
cuore a popoli che crediamo estranei, a uomini e donne che non abbiamo
incontrato e non incontreremo. Corrado Ruggeri ci parla di villaggi e orfanotrofi; ci ricorda che i
poveri della terra esistono, e non sono soltanto le migliaia di Lampedusa, ma i
miliardi che restano a casa, o cercano di costruirsela sulla propria terra. E
ci spiega che loro certo hanno bisogno di noi; ma anche noi abbiamo molto
bisogno di loro”.
Abbiamo approfondito questi spunti
con Corrado Ruggeri e ne è scaturita l’intervista che riportiamo di seguito.
Corrado, che cosa rappresenta il fiume Mekong per un grande
viaggiatore come te?
Ognuno di noi ha dei luoghi cari
in giro per il mondo. Il Mekong è il mio. È insieme la dolcezza e la crudeltà
dell’Asia: nasce sul Tibet, e la leggenda dice che chi beve un sorso di quelle
acque di montagna conquisterà l’immortalità, magari soltanto quella del ricordo.
E poi è stato il fiume della guerra, dei cadaveri che scivolavano e che,
secondo una credenza orientale, di notte parlavano. È il grande fiume della
speranza, di un futuro migliore per chi ancora oggi, lungo quelle rive cammina
a piedi nudi e dorme su una stuoia.
Forse posso dire di averci sempre
pensato. Dopo Roma, e forse Londra e New York, il bacino del Mekong e il sud-est
asiatico sono la parte del mondo che conosco meglio. Era naturale che
ambientassi lì il mio primo romanzo, dopo averci scritto, peraltro, altri libri
di racconti di viaggio. Mekong e quella parte d’Asia sono la mia seconda casa:
anzi, non escludo affatto, vorrei dire spero, di andarci a vivere.
La scelta dei temi del libro – l’adozione, l’amicizia, il viaggio, la
prostituzione, la diversità, il tradimento, la fiducia, l’ansia di scoprire o
riscoprire le proprie radici, ma anche la vendetta e la “rinascita” –
rappresentano una sfida non da poco, eppure tutti questi temi sono bilanciati e
approfonditi con maestria e sensibilità nel libro, senza mai nascondersi dietro
il luogo comune e l’ipocrisia. Ci sono altri temi al centro del libro e quali
sono le doti dell’ottimo narratore nel saperli far convivere e nel saperli bilanciare
all’interno di un solo libro?
Beh, sono stato fortunato, è
andata bene. Diciamo che questo libro, come ha colto benissimo Aldo Cazzullo
nella prefazione, è una specie di summa del mio modo di intendere la vita e i
rapporti umani, fatti di rispetto, onestà, fiducia. Ma anche di sapiente
ferocia, quando c’è da punire chi ha sbagliato o si è comportato male: il
perdono è dote che appartiene a Dio, a qualunque dio si creda, per gli uomini è
esercizio molto difficile. Come nella complessità della vita, ho messo tutto
insieme e se il mix è riuscito, bè, sono contento. Se mancano ipocrisie e
luoghi comuni è perché cerco di cancellarli anche dalla mia vita: li detesto,
come le persone che invece li adottano come comportamenti abituali.
“Papà Mekong” è un libro molto al femminile, nel quale s’intrecciano i
caratteri, le fortune e le tragedie di tre donne incredibilmente diverse,
eppure a loro modo ciascuna simbolo di una differente femminilità? Perché
questa scelta?
Da uomo mi piaceva raccogliere la
sfida di mettere le donne al centro del racconto. Sapevo che sarebbe stato più
difficile, perché le reazioni maschili le governo più semplicemente. Raccontare
le donne mi ha richiesto un’attenzione maggiore, una fatica aggiuntiva. E mi è
piaciuto diversificarle: un’intellettuale borghese italiana, radicata negli
affetti, una ex guerrigliera che trasforma la sua ansia di giustizia
indirizzata male in attività di solidarietà umana, una prostituta che scopre
l’amore e la delusione ed è portatrice di una forza umana, di un sentimento di
onore che fanno di lei un gigante di straordinaria ricchezza umana.
E per quale ragione, nella tua narrazione, gli uomini, i maschi, hanno
prevalentemente un ruolo secondario (penso al compagno della protagonista
italiana e a quello della co-protagonista cingalese) o, addirittura, negativo
(penso al trafficante di opere d’arte o, per certi versi, persino al padre
della protagonista, che rappresenta poi il magnifico collante dell’intera
storia)?
Ecco, una risposta politicamente
corretta e dunque ipocrita potrebbe essere che considero le donne migliori
degli uomini. Non è così. Ma non è vero neppure il contrario. Credo che ci
siano persone, a prescindere dal sesso, che possono essere buone o cattive,
valide o insignificanti. In questo romanzo accanto a personaggi femminili molto
forti, di spessore, gli uomini impallidiscono un po’, sono più prevedibili, un
po’ sgualciti. Se posso essere del tutto scorretto, diciamo che ho descritto le
donne come mi piacerebbe che fossero. Ma non sempre sono così.
Che cosa rappresenta per le l’universo femminile e quale spazio
intravedi per la donna nel mondo in costruzione, in divenire?
Non sono molto ottimista sui
destini del mondo. A meno che non si riesca a dare una sterzata che corregga
questa dannata rincorsa solo al lato estetico del vivere: denaro, carriera,
potere. I valori veri sono altri, e dovrebbero essere più naturali per una
donna, che ha la fortuna di dare la vita. Ecco, quando si diventa genitori, si
scopre il valore vero delle cose: e in questo la donna ha una fortuna in più
rispetto all’uomo, fa nascere i suoi figli. L’universo femminile è sregolatezza
ma fantasia, scarsa affidabilità ma capacità di comprensione: ha quello che
manca al pianeta maschile. Rispetto il femminismo, quando è capace di agire non
in modo anti, contro qualcuno, ma per costruire regole e sistemi nuovi. E
proprio di questo accuso le donne. Il modello maschile è fallito, ma per
cercare di affermarsi maggiormente nella vita, come è giusto che sia, le donne
stanno facendo gli stessi errori che hanno fatto gli uomini. Dovrebbero provare
a imporre un loro modello, utilizzare sistemi diversi. Altrimenti non cambierà
niente.
“Papà Mekong” fa venire una voglia incredibile di viaggiare in Asia e
di viaggiare l’Asia. Quali luoghi un viaggiatore occidentale non può non
visitare, in quelle terre, e con quale spirito dovrebbe accostarsi a quei
mondi?
L’Asia sono tanti mondi, ciascuno
dei quali ha un fascino straordinario. Oltre al Mekong c’è un altro grande
fiume, il Gange, e in India vanni visitate sicuramente Varanasi e anche
Calcutta. Non si tratta di fare del turismo spettacolo sulla povertà e la
sofferenza: è che soltanto visitando le parti del mondo più difficili, come
possono essere Calcutta o la Cambogia, ci si può davvero rendere conto che la
nostra condizione di occidentali è oltremodo fortunata. Perché lì c’è chi dorme
sotto una busta di plastica o forse non ha nemmeno quella e con un dollaro
mangia due giorni. Il viaggio è compartecipazione, è rendersi conto che siamo
un mondo di fratelli e quando è possibile – cioè sempre – dovremmo aiutare chi
ha avuto di diverso da noi soltanto la sfortuna di nascere in un posto meno
comodo. E comunque, visto che poi non ci neghiamo anche un po’ di ristoro sulla
spiaggia o a bordo piscina, suggerisco Thailandia, che adoro, Vietnam – il
quartiere francese di Hanoi è una delizia – il lungofiume di Phnon Penh,
ovviamente Angkor, la sonnolenta Lunag Prabang in Laos, Pagan in Birmania.
D’estate diventa splendida l’isola di Redang, in Malesia.
Che cosa ti manca
principalmente dell’Asia?
Tutto. Profumi, colori, il caldo
umido, le zuppe Pho, vietnamita, e Tom Yum Goong, thailandese, il lemon fresh dello Shangri La di Bangkok,
i mercati, le cavallette fritte di Yangoon, i massaggi, un po’ della pigrizia
che ti conquista giorno dopo giorno. E il sorriso della gente, la semplicità
delle relazioni, l’abbigliamento informale. Sto cercando di convincere mia
moglia Carla ad andarci a vivere, tra pochi anni.
E del Mekong?
La luce del tramonto, quando i monaci fanno il
bagno, i ragazzini dei villaggi caricano secchi d’acqua sulle spalle, le
pentole cominciano a rumoreggiare sul fuoco. Nel delta ci mettono cane, topi o
serpenti di fiume, una delle cose più immonde che abbia mai mangiato. Ma quando
non hai troppa scelta per le cose da mettere nello stomaco, la bocca non fa
troppi capricci. Basta guardare i bambini. Credo che l’espressione “non mi
piace” non abbia traduzione da queste parti.