Che lo si
voglia o meno, nel 2012 ricorrono i vent’anni dell’inizio della guerra che
determinò l’esplosione e la frammentazione della Jugoslavia.
Un libro
composto di foto e testi inediti, “Jugoschegge”
(Infinito edizioni, 2011, pagg. 108, € 13,00) attraverso le testimonianze di
giornalisti, artisti e operatori umanitari (Mario Boccia, Paolo Rumiz, Ennio
Remondino, Luca Rastello, Alessandro Gori, Roberta Biagiarelli, Silvia Maraone)
che ben conoscono i Balcani ricostruisce gli eventi di allora e proietta
l’attenzione sui Balcani di oggi, evidenziandone criticità e potenzialità.
Ne
abbiamo parlato in un’intervista doppia con i due autori del libro, Tullio
Bulgari e Giacomo Scattolini, che hanno risposto a cuore aperto a questioni a
loro molto care. Si può non essere d’accordo su alcuni punti di questa
intervista, ma ai due autori e al loro sforzo editoriale vanno riconosciuti
molti meriti, non ultimo quello della chiarezza espositiva.
Una domanda a bruciapelo:
“Jugoschegge” è un libro sulla cosiddetta “Jugonostalgia” o è qualcosa di
diverso o di più?
Giacomo
Scattolini: Non è assolutamente un libro sulla
“Jugonostalgia”. Sono un cittadino italiano e non mi permetterei mai di parlare
di una “nostalgia” per un Paese non mio. È un libro che vuol guardare avanti.
Su ciò che “sarà” quella terra e non su ciò che “era”. Sono passati vent’anni
da quegli eventi, le cause o la nostalgia è un lavoro per gli storici. Per
analizzare il futuro abbiamo scelto persone italiane che quegli eventi li hanno
vissuto direttamente e che hanno cambiato profondamente la loro vita,
sviluppando uno sguardo “fino”. Abbiamo anche voluto celebrare quel grande
movimento che furono i “volontari” che andarono in quelle zone ad aiutare
profughi e vittime della guerra. Un movimento atipico, tutto italiano, di
persone non pagate che sacrificavano il loro tempo e i loro soldi per aiutare
il prossimo. Un movimento troppo ignorato dai media e dimenticato da tutti, ma
unico nel suo genere.
Tullio Bugari: È qualcosa di diverso, è il tentativo
di rispondere, anche parzialmente, a domande che mi ponevo già durante la
guerra, ad esempio quali sono i meccanismi sociali che rendono possibile la
rottura delle relazioni, le pulizie etniche, lo schierarsi – da parte di chi è
fuori – pro o contro un conflitto talvolta con le stesse logiche del tifo verso
una squadra di calcio (“Chi ha vinto la guerra?”, si chiesero una sera in nave
due ragazzi che cenavano nel tavolo accanto, stimolati dalla conversazione che
orecchiavano tra me e Giacomo). E poi m’interessava cercare di capire in che
modo tutto ciò che accade deve essere affrontato o raccontato, per restituire
dignità a chi ha subìto torti disumani e per acquisirne un insegnamento utile
anche a noi.
Da cosa nasce l’idea di mettere a
confronto i Balcani devastati dalla guerra degli anni Novanta con quelli
odierni, parzialmente ricostruiti dal punto di vista materiale ma devastati sul
piano umano, culturale e civile?
Giacomo:
Personalmente non sopporto le celebrazioni. Il guardare indietro. Fare un libro
con i soli “scatti” della guerra mi sapeva da operazione mediatica, quasi una “sciacallata”.
Rovistare nell'archivio fotografico e ri-pubblicare dopo quasi vent’anni le
stesse foto. Senza fare uno sforzo, senza fare un approfondimento. Ho viaggiato
i Balcani ininterrottamente in questi anni. Volevo far vedere che stanno
rinascendo, che dalle macerie materiali si può ricostruire una città. Più
difficile ricostruirla sul piano umano. Spesso dico: “In ex Jugoslavia si può e
si deve andare”. Ecco. Con le foto voglio dimostrare che si può andare, che la
vita prosegue e che dagli errori si può imparare e guardare avanti.
Tullio: Ricordare che quando finisce un
conflitto non si può far finta di nulla rispetto a quanto è accaduto, perché le
conseguenze restano e la ricostruzione non è qualcosa di automatico; al tempo
stesso è anche importante guardare avanti, ai progressi, anche se questi sono
piccoli e difficili; anzi, prestarvi più attenzione può essere utile per
incoraggiare e sostenere le forze positive, che ci sono e devono potersi
esprimere.
Secondo voi il confronto tra il
durante e il dopo, in un conflitto, può essere educativo per far comprendere la
devastazione e la disumanità insite in ogni guerra?
Giacomo:
Certamente il confronto può aiutare ma bisogna andare molto cauti quando si
tenta di lanciare un messaggio del genere. Mi spiego meglio. Dire che, passata
una guerra, tutto si può ricostruire può trarre in inganno, generare un
malinteso. Bisogna far capire che ricostruire un palazzo, una casa, non vuol
dire che la guerra è passata o finita. Prima di tutto bisogna ricostruire i
rapporti umani che si sono interrotti, prendere coscienza di come si è arrivati
alla guerra e fare in modo che ciò non si ripeta. Perdonare i torti subiti ma
certamente non dimenticarli, che siano da stimolo per andare avanti e non
lasciar sedimentare l'odio per poi farlo sfociare nelle generazioni successive.
Avere rispetto dei propri morti e di quelli altrui, del tuo nemico.
Tullio: Sì, anche se molto dipende dal
modo in cui si riesce a farlo, facendone emergere i lati di maggiore umanità,
che comunque resistono e aiutano anche a recuperare la “Ragione”, che di solito
nelle guerre è la prima a perdersi o a lasciarsi ingannare. Poi ci sono da
gestire in modo positivo le memorie, di solito dolorose. Non c’è nulla di
scontato. Occorre un sincero impegno.
Quali Balcani vedete e sentite
ogni volta che viaggiate in quelle terre meravigliose?
Giacomo: Ci
vorrebbe un altro libro per rispondere. Mi affascinano queste enormi
contraddizioni che si trovano. Nei Balcani ho incontrato forse le persone più
ospitali o folli che mi sia mai capitato. Dare piena fiducia a dei perfetti
sconosciuti ed esserne ricambiati. Poi il lato oscuro dei Balcani. Storie
cruente, quasi inverosimili. E ti domandi come possano essere le stesse
persone! Non mi piace dare giudizi, preferisco osservare. È vero però che nei Balkani
la “Storia” nei secoli ha forgiato quelle terre con guerre, scontri religiosi,
scismi religiosi... Sono terre di confine, hanno un fascino intrinseco tutto
loro. Ogni volta è un viaggio diverso. Dico di non andare più, poi alla prima
occasione ritorno da quelle parti... È quasi un sentirsi a casa.
Tullio: È l’altro lato di noi. Negli
ultimi decenni il mondo dei blocchi ci ha diviso come un “visconte dimezzato”,
eppure per secoli l’Adriatico è stato solcato avanti e indietro anche da
singoli gruppi familiari con le barche, come racconta Sergio Anselmi nelle “Storie
d’Adriatico”; il mio stesso cognome, che è diffuso solo in questa zona costiera
del medio Adriatico italiano, lascia immaginare una provenienza da quel lato
dell’Europa, ma forse anche nel caso del mio cognome si tratta di un viaggio di
andate e ritorni: di recente, navigando in internet, ho addirittura scoperto
l’esistenza del mio cognome, in lingua italiana, in Bosnia.
Perché l’idea di un libro corale?
Giacomo: Sono
quelle cose che nascono così, senza un perché. Nel 1999 con Tullio scrivemmo un
libro “corale” con le storie di profughi raccontate da loro in prima persona,
perché ci sentivamo inadeguati a raccontare una storia tanto personale quanto
tragica. Volevamo rimanere in disparte, lasciare al protagonista (quella volta
i profughi) il ruolo principale. Quella formula ci era sembrata corretta. In
questo libro, sempre con Tullio, abbiamo provato le stesse sensazioni. Quasi
inadeguati. Personalmente come posso io di fatto scrivere la storia di un
personaggio, forse unico nel suo genere, come Mario Boccia?! Uno dei migliori
fotografi italiani sia sul piano tecnico ma ancor di più sul lato umano?!
Diciamo che siamo più bravi a raccogliere storie che a scriverle...
Tullio: Sono già corali di per sé i
Balcani, semmai lo sono un po’ di meno le nostre esperienze, legate ciascuna a
dei percorsi personali, che potrebbero perdersi, e allora l’idea di ricomporle
insieme, mantenendo i loro sguardi così diversi ma in un quadro che riacquista
un suo movimento, ha preso corpo quasi naturalmente.
Su quali basi avete scelto i sette
intervistati del libro?
Giacomo:
Abbiamo seguito un percorso logico. Da un lato ci interessava analizzare
”informazione” e “media” (Rumiz, Remondino) e dell'altro ci premeva fissare su
carta quella storia tutta italiana del volontariato dal basso, auto-organizzato,
che pur fra mille errori ha fatto tantissimo (Maraone, Biagiarelli). In mezzo
poi ci abbiamo messo quelle strane figure che erano sia giornalisti che
umanitari (Boccia, Rastello, Gori). Spesso i loro ruoli si sovrapponevano. Sia
io che Tullio abbiamo partecipato attivamente come volontari. Seguivamo una
scuola di Mostar.
Tullio: Al di là del fatto che con alcuni
siamo rimasti sempre in contatto in questi anni, mi sembra che il filo
principale sia stato “il racconto della guerra” attraverso i diversi linguaggi:
la fotografia, il teatro, la scrittura, il giornalismo televisivo, e
soprattutto la solidarietà attiva, quella sviluppata spontaneamente dal basso.
E poi in che modo porsi – “dentro” i diversi linguaggi e attraverso i diversi
linguaggi utilizzati – in contatto con le tragedie degli altri. Un’esperienza
che io e Giacomo avevamo vissuto con il nostro primo libro, “Izbjeglice”, il
cui aspetto principale era stato “come ascoltare” le storie di chi ha vissuto
quelle tragedie dall’interno. Ora volevamo far parlare italiani come noi, che
avevano seguito quegli avvenimenti con intensità ma da “esterni”, per capire
attraverso di loro che cosa tutti insieme potevamo aver appreso da quelle
esperienze.
Perché i media italiani non hanno
saputo spiegare i conflitti balcanici e nel pubblico italiano sono passati solo
pochi concetti stereotipati, e spesso falsi?
Giacomo: Perché
era una guerra complicata. Era caduto il comunismo, sul fronte giornalistico
penso che l'Italia fosse del tutto impreparata a un evento del genere. C'era
chi la raccontava come una guerra dell'imperialismo tedesco e del Vaticano, chi
come di tribù arretrate abituate a scannarsi periodicamente. Nel frattempo
l'informazione, dopo la prima guerra del Golfo, è diventata di fatto un
intrattenimento. Quindi debbono passare concetti semplici per il telespettatore
che non vuole porsi tante domande. Ecco quindi la necessità di creare un
“buono” e un “cattivo”. Ma come diceva Dario, un mio amico di Mostar, in ex
Jugoslavia gli attori erano tre: se uno era il buono, l'altro era il cattivo...
il terzo cos’era? Quindi ancora più complicato da raccontare! E spesso il buono
era buono a tempi alterni come lo era il cattivo. Debbo dire che però sono
state scritte anche pagine bellissime di giornalismo non stereotipate. Certe
non sono passate in tv, o se lo sono passate era a notte fonda. Sono stati
scritti libri bellissimi e di tutti i generi, condivisibili o meno, ma di certo
rispettabili. Diciamo che in tv e in prima serata non bisogna aspettarsi
molto...
Tullio: Questo è uno degli argomenti
affrontati in modo più diretto nella conversazione con Ennio Remondino.
Intervengono più cause: la scarsa conoscenza dei Balcani in quanto tali da
parte di tanti giornalisti o una loro esperienza debole nel reportage di guerra, le stesse
difficoltà logistiche sui diversi terreni frammentati del conflitto e altre
cause, tra cui in particolare quella che lui chiama “Ideal politik”, il voler
cercar a tutti i costi di individuare i buoni e i cattivi e fornire
giustificazioni, rivestendo di ideali ciò che ideale non è. È proprio questo il
tema: “il racconto della guerra”. Anni fa trascorsi una notte in bianco, in
nave da Spalato ad Ancona, con un ragazzo di Stolac che un po’ alla volta mi
raccontò un’infinità di storie che gli erano accadute; a un tratto mi disse: “È
la prima volta che racconto a qualcuno”. Gli chiesi il perché e mi rispose: “Perché
appena iniziavo, m’accorgevo che chi ascoltava banalizzava, interpretava con i
suoi pregiudizi”. Ecco, credo che non dipenda solo dai media, come se fossero
qualcosa di arcano; penso che dipenda anche dalla nostra cultura e dalle nostre
convinzioni, che hanno bisogno di essere meglio indagate.
Che cosa pensano dell’Italia e
degli italiani i Balcani che conoscete e frequentate?
Giacomo: Le
opinioni sono cambiate nel tempo. In generale degli italiani hanno un buon
ricordo. Posso capirli in Bosnia e Croazia ma mi domando come hanno fatto i
serbi a dimenticare le bombe che gli abbiamo tirato con la “guerra umanitaria”
del 1999. Forse perché l'hanno vissuta come una guerra fra Serbia e Stati Uniti.
Più il nemico è grosso più la sconfitta è epica. A uso della retorica. Durante
il conflitto l'Italia era vista come una meta di approdo. Ora sia la crisi
economica sia la pochezza della politica italiana hanno fatto sì che l'Italia
non sia più vista come un eldorado. Guardano altrove oramai... sarà contento
qualcuno in Italia, ma a quale prezzo?
Tullio: Ho un amico fuggito dall’assedio
di Sarajevo, col quale spesso ci perdiamo in appassionate e intricate
conversazioni sull’Italia e sulla “Jugoslavia”, soprattutto dopo che gli hanno
concesso la cittadinanza italiana e quindi ha giurato sulla Costituzione, che
poi naturalmente ha letto, diversamente da quanto fanno molti italiani di
nascita. La sua difficoltà principale è quella di riuscire a cogliere “la
nostra identità dal nostro punto di vista”, ovvero in che cosa esattamente
consista l’orgoglio di essere italiani dato che al tempo stesso siamo sempre lì
sia lamentarci di noi stessi, così individualisti e anche così diversi da paese
a paese, da regione a regione. Niente affatto patrioti ma ugualmente orgogliosi:
di che? Che strano popolo siamo? Quando poi si parla di quanto è successo dalle
sue parti e dell’ubriacatura etnica che ha travolto tanti, dopo un po’ si gira a
guardarmi e mi dice: “Beh, anche qui in Italia, dopo questi venti anni, non è
che…”.
Quando finirà la ricostruzione in
Bosnia? O forse dovrei chiedervi: finirà mai…?
Giacomo: Sulla
ricostruzione sono sconfortato. Parliamo di Bosnia, Serbia e Kosovo. Croazia e
Slovenia oramai sono avviate e camminano con le gambe proprie. La Bosnia è
avvitata su se stessa. Una struttura politica elefantiaca che draga ricchezza
della povera gente che oramai vive di fatto di “rendite” grazie alle rimesse dei
milioni di espatriati che inviano soldi a casa. Ma fino a quando continueranno
a spedire quei soldi? Le seconde generazioni cresciute all'estero non avranno
nessuna intenzione a mandare soldi! E poi a chi? Ai loro nonni, al massimo, se
vivranno ancora. Industrie zero. Scuole ancora con la doppia entrata come a
Mostar o a Stolac: da un lato i croati dall'altro i musulmani! Fino a quando
potranno andare avanti? Per non parlare della Republika Srpska. Se al Kosovo
(giustamente o ingiustamente non sta a me dirlo) è stata riconosciuta
l'indipendenza, perché la Srpska non può aspirare a tanto? Fino a quando
reggerà questa situazione assurda? Di certo reggerà fino a quando la
generazione che ha fatto questa guerra sarà ancora giovane. Ma chi nasce ora,
chi crescerà nella povertà, nelle scuole dove non c'è dialogo fra studenti
perché di altra “etnia”, beh, questa sarà la prossima carne da cannone. Per non
parlare del Kosovo, uno Stato a metà. Riconosciuto da meno della metà dei Paesi
del mondo e a sua volta diviso a metà, uno Stato in cui la polizia non ha
neanche il controllo del territorio, perché una parte è a maggioranza serba e
l'altra albanese! Dove i pogrom contro le minoranze non sono mai finiti, in
base a chi detiene il potere in quel momento. Diciamo un Paese ideale per le
mafie di tutto il mondo...italiane in testa.
Tullio: Finita
la guerra nulla è tornato come prima. Non parlo delle forme di governo ma delle
relazioni interne a un tessuto sociale ricco e articolato. Dopo oltre centomila
morti e più di un milione di profughi trasformatisi in esuli volontari
permanenti, gli accordi di pace per far cessare il conflitto hanno congelato la
situazione di fatto determinata alla fine della guerra dalle reciproche pulizie
etniche, in entità separate o in situazioni amministrative chiuse una rispetto
all’altra. Da allora pochissimi passi in avanti sono stati fatti. Spinte dal
basso, esperienze positive, ne esistono, ma avvengono in una cornice in cui non
trovano veri sostegni. Anche gli aiuti dall’estero corrono costantemente il
rischio di piegarsi a queste nuove suddivisioni che antepongono l’interesse di
una parte a quello generale. È difficile un vero sviluppo senza un’evoluzione
di questa situazione. Ora poi c’è anche un problema di sviluppo in tutta
Europa. Pensando anche ai problemi attuali dello sviluppo in Italia, mi viene
in mente in una recente intervita la proposta dell’ex ministro Renato Brunetta
di abolire i certificati antimafia, oppure gli interventi di un altro ex ministro,
Maurizio Sacconi, secondo cui per rilanciare lo sviluppo non sono tanto
importanti le risorse quanto abolire “lacci e lacciuoli”. Mi pare di ricordare
che una volta, quando ancora si parlava seriamente dei problemi dello sviluppo
nel nostro meridione, si diceva che i veri lacci e laccioli dipendevano dalle
cosche e dalle confraternite di affari, organizzate per imporre le loro di
regole. Ancora una volta trovo interessante riflettere parallelamente sul
nostro Paese e sui nuovi Stati della ex-Jugoslavia.