Srebrenica,
19 anni dopo – pensieri per l’anniversario: Luca
Leone
Il
ricordo della mia prima volta a Srebrenica è legato a un viaggio in taxi da
Tuzla, cominciato al mattino presto, in compagnia di un’interprete diventata
poi amica, Emira (oggi splendida mamma), e di un tassista alquanto preoccupato,
direi terrorizzato. Erano tempi in cui a Srebrenica non c’erano ancora quasi
musulmani – avrebbero cominciato a rientrare negli anni successivi, per quanto
questo rientro abbia riguardato soprattutto donne, coraggiose e vedove – la
poca gente a una certa ora non girava più per le strade e in circolazione
c’erano preoccupanti ceffi armati.
Da
allora non so più quante volte sono tornato a Srebrenica. Almeno una volta
l’anno, ogni anno. Spesso di più. In estate capita d’incontrare gruppi, gente
allegra, curiosa, a volte interessata a tornare, magari l’anno dopo, per fare
qualcosa. Per chi è rientrato, questo è importante. Sapere di non essere stati
cancellati, rimossi, masticati e digeriti dalla grande e antropofaga macchina
dei media: questo chiedono, desiderano, vogliono le donne di Srebrenica, queste
donne meravigliosamente forti e tragicamente segnate dalla perdita violenta di
tutto ciò che di più caro avevano al mondo. Figli, nipoti, mariti, fratelli, i
genitori per le più giovani.
Negli
occhi di queste donne ritrovo, ogni volta, un dolore viscoso, un lacerante urlo
silenzioso di disperazione, che implode loro nell’anima, devastandole ogni
giorno di più, ogni giorno che il destino permette loro di riaprire gli occhi,
al mattino.
Non
è un dolore di facciata. Non è autocommiserazione o vittimismo sventolato in
faccia a chi va a incontrarle. È dolore genuino, vero, così profondo da poter
quasi risultare incomprensibile a chi il vero dolore non l’ha mai sperimentato,
a chi pensa che basti svoltare l’angolo per spegnere la realtà, come si fa con
un computer o con la televisione. Un pulsante e il film dell’orrore scompare.
Clik. No, a Srebrenica l’orrore è reale, palpabile, costantemente presente,
invasivo. Come il senso d’impotenza. Quest’ultimo è figlio della mancata
giustizia. Da diciannove anni le donne di Srebrenica chiedono giustizia, solo
quella. Il mondo è sordo, il loro Paese è sordo. Le coscienze dei potenti sono
inevitabilmente sorde. Ecco perché in quegli occhi il dolore è sempre più
viscoso, pesante, opprimente, insanabile. E oggi, diciannove anni dopo, lo sarà
ancora un po’ di più.
Io
credo che queste donne moriranno senza aver mai conosciuto giustizia. Penso che
fino all’ultimo giorno della loro esistenza dovranno muoversi in una città
ormai ostile, in un’Entità – la Repubblica serba di Bosnia – ancora più ostile,
in mezzo a coloro che, nel luglio del 1995, hanno partecipato attivamente oppure
come delatori all’omicidio di massa di ogni loro singolo caro.
Provate
a pensare a come vi sentireste, se vi capitasse un’esperienza del genere.
Provate
a pensare ai tanti casi di cronaca nera italiani, rimasti senza un colpevole
e/o un mandante.
Ora
provate a moltiplicare questi casi per oltre 10.000 e forse comincerete ad
avere una lontana idea di che cosa voglia dire l’espressione “giustizia negata”
e di come quelle donne possano sentirsi.
Forse
ora vi sentirete più vicini a loro. O forse continuerà a non fregarvene nulla,
perché magari non c’è niente di più importante dell’incipiente finale dei
mondiali di calcio. Ma sappiate che quanto accaduto a Srebrenica e in Bosnia
potrebbe succedere in qualunque parte del mondo. Anche in Italia. Dove pure,
durante la seconda guerra mondiale, abbiamo conosciuto tanti efferati eccidi,
spesso rimasti senza un colpevole e senza giustizia. Tutto questo è normale?
No, non credo. Come non credo sia normale non provare dolore e compassione
davanti a eventi come il genocidio di Srebrenica. Gli autori di quel genocidio
non ne hanno provato, di dolore, a Srebrenica. Non hanno provato compassione. E
questo dovrebbe indurre tutti a una profonda riflessione. Perché i criminali
non hanno una sola nazionalità. Ma tutti sono accomunati, ovunque vivano, dagli
stessi obiettivi e dal medesimo disprezzo per la vita. La vita degli altri.
Luca Leone,
Giornalista,
scrittore, direttore editoriale Infinito edizioni